venerdì, 26 Aprile 2024

Non mimose, ma rispetto: una storia di ordinario catcalling

Negare che la molestia di strada e il femminicidio siano parte della stessa famiglia è come affermare l'esistenza degli unicorni. Le donne non vogliono mimose, mezzi pubblici e ingressi gratuiti nei musei statali per 24 ore. Quello che esigono è il rispetto. 

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Per andare a lavoro prendo il treno. Da casa mia alla fermata della stazione impiego 20 minuti, un chilometro e mezzo circa a piedi. È sabato, sono le 13, piove molto e non ho l’ombrello, ma questa non può essere una buona scusa per marinare il turno di lavoro. Nell’armadio ho una giacca molto pesante da snowboard (anche se non lo pratico) che resiste all’acqua e al vento, e si sa, a mali estremi, estremi rimedi. Esco di casa incappucciata e infagottata per inzupparmi il meno possibile, la mascherina e un cappello di lana per non esporre all’acqua nemmeno una ciocca di capelli. Dopo aver percorso meno di 250 metri accade ciò che un po’ mi aspettavo: “Tesoro, ma sei tutta bagnata”, due uomini sulla cinquantina. Li mando a quel paese e, mi verrebbe da dire “ovviamente”, loro mi suggeriscono di scegliere la stessa destinazione.

Dopo altri 250 metri circa, svolto l’angolo, i jeans fradici, il maglione miracolosamente asciutto; la giacca da snowboard funziona. Passo davanti a un gruppo di ragazzi, forse hanno la mia stessa età. “Amore mio, non pensavo di farti questo effetto”. Fingo di non sentire mentre loro continuano a strizzare le labbra come per attirare l’attenzione di un gatto randagio. Mi sento umiliata, il passo comincia a farsi meno svelto. Perdo il treno, ma riesco ad ottenere un passaggio per arrivare a lavoro; in macchina scoppio a piangere.

Esco dall’ufficio, memore di quanto accaduto qualche ora prima, e prendo in prestito l’ombrello “d’emergenza” lasciato da qualche collega. Baciata dalla sfortuna: svoltato l’angolo, una folata di vento rompe i raggi e sono costretta al secondo round sotto la pioggia. Dal posto in cui lavoro ci vogliono 15 minuti per raggiungere la stazione, un chilometro e un centinaio di metri. Zuppa e incredibilmente stupita per aver raggiunto la meta senza essere molestata, m’infilo nel sottopassaggio e aspetto l’arrivo del mio regionale. “Se hai jeans così bagnati, non immagino il resto”.
Questo si chiama catcalling, questa è violenza.

Maledetto benaltrismo

Più o meno un anno fa, si è cominciato a parlare di molestie di strada dopo la vicenda di Aurora Ramazzotti che, nella speranza di sensibilizzare i suoi follower, aveva denunciato sui suoi social un fenomeno di catcalling che l’aveva vista protagonista. Molte testate si erano occupate non solo del caso specifico, ma anche del fenomeno in generale, interpellando anche alcune giornaliste e attiviste. Ma, tra gli articoli che più mi hanno colpita (in senso negativo, però) c’era quello pubblicato dopo qualche giorno da una penna che, a suo modo, quarant’anni fa ha fatto la storia del femminismo. Il suo pezzo voleva essere una riflessione sulla morte di Luana D’Orazio, l’operaia 22enne  che il 3 maggio 2021 perse la vita in un incidente sul lavoro; invece, quell’epicedio si è trasformato in un pretesto per ridicolizzare chi combatte tutti i giorni contro ogni forma di violenza sulle donne.

Quelle 852 parole, per un totale di 5169 caratteri (spazi compresi), sono una bibbia del benaltrismo. Secondo gli ultimi dati forniti dal movimento Hollaback, 4 donne su 5 hanno subito molestie di strada prima dei 17 anni, il 57% prima dei 15 e, addirittura, il 9% prima dei 10 anni. Io stessa – e sicuramente molte delle donne che stanno leggendo queste righe – ricevo costantemente “avances” (come vengono definite con pressappochismo da molti colleghi e colleghe) indesiderate. Sentirci dire di chiudere un occhio, di farci una risata, di non prendercela perché “è solo goliardia” non è altro che l’ennesimo modo per sminuire un problema reale, uno squallido leitmotiv nella vita di ogni donna e ragazza. Perché sì, è vero che sentirsi gridare – quando va bene – “A fantasticah” non equivale al femminicidio (dal paragrafo quarto della bibbia del benaltrismo), ma la molestia di strada è sempre figlia di un padre famoso, il patriarcato. Ci perdoneranno le femministe che credevano di averlo sconfitto nel 1978 se oggi cerchiamo di combatterlo tutte le sue forme.

Figli sani del patriarcato

Quando si parla di patriarcato e femminismo un po’ tutti storcono il naso, come se il primo fosse una cosa desueta nel mondo occidentale e il secondo un movimento estremista, tipo black block, ma vestiti di rosa. Tuttavia, negare che forme di sessismo come la molestia di strada e il femminicidio non siano parte della stessa famiglia sarebbe come affermare, anche con una certa convinzione, l’esistenza degli unicorni.

“S’è sempre fatto così. Mia nonna non si sarebbe mai lamentata”. Normalizzare il catcalling è pericoloso. È un retaggio maschilista, figlio di una società sessista in cui l’uomo si sente in dovere di dire e fare tutto ciò che vuole pur far prevalere il suo potere. Non conta se chi subisce la molestia si sente a disagio, se dopo un commento osceno o un fischio comincerà a modificare le sue abitudini per prevenire il problema (come se dipendesse da lei). La molestia di strada è violenza anche se non ci mettono le mani addosso, è l’affermazione di una forza. Giustificarla, dunque, diventa un beneplacito.

Non mimose, ma rispetto

Ci sono solo due giorni in cui i paladini del catcalling decidono di scioperare: il 25 novembre, quando “la donna non si tocca nemmeno con un fiore”, e l’8 marzo, giorno delle “dolcemente complicate”. La Giornata internazionale dei diritti della donna diventa quella del sessismo benevolo, in cui con un bel mazzo di mimose si copre per 24 ore il puzzo del sessismo. Il lezzo, però, si avverte distintamente.

In questa data molti uomini sembrano la cosa più simile alla Chiesa Cattolica del XV secolo: l’8 marzo diventa la fiera delle indulgenze, una mimosa per sfuggire alla pena temporale, per convincersi di aver espiato un peccato. Il solo fatto di chiamare questa giornata “Festa della donna” è il sintomo di una superficialità e un’approssimazione fuori controllo. Non vogliamo mimose, mezzi pubblici e ingressi gratuiti nei musei statali per 24 ore. È il rispetto quello che le donne esigono. 

 

 

 

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