martedì, 23 Aprile 2024

Dalla violenza psicologica al femminicidio: il passo è breve

Tutto inizia come una normale storia d'amore. Un incontro, un colpo di fulmine, poi la convivenza o il matrimonio. Ma nel frattempo, non ci si accorge che determinati comportamenti portano sempre più vicino alla circonvenzione, al condizionamento.

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“Perché non è andata via? Perché dopo essere andata via è tornata? Perché ha sporto denuncia e poi l’ha ritirata? Sono domande ricorrenti che molti si pongono quando sentono o leggono la notizia di un nuovo femminicidio. Prima di elaborare un qualsiasi giudizio, di accusare la donna di mancanza di coraggio, di carattere, o addirittura di essersela cercata, bisogna capire che dietro al non partire c’è un meccanismo molto sottile e complesso.

Un meccanismo che distrugge le capacità psichiche della donna che si trova intrappolata in una relazione distruttiva, dalla quale non riesce ad uscire. Un meccanismo che la rende completamente soggiogata, assoggettata, sottomessa, dominata. Finendo, così, nella morsa di chi diceva di amarla.

La violenza non arriva da un giorno all’altro. Dietro ad un femminicidio, si nasconde quasi sempre lo stesso schema. Nella relazione, l’uomo assume il controllo sulla donna, che è spinta a sottomettersi. In questo modo, raggiunge il suo obiettivo. Quello di dominarla, controllarla e di affermare il proprio potere su di lei. La donna non può più sfuggire.

È un processo graduale di cui non ci si rende conto. Perché tutto inizia come una normale storia d’amore. Un incontro, un colpo di fulmine, poi la convivenza o il matrimonio. Ma nel frattempo, non ci si accorge che determinati comportamenti portano sempre più vicino alla circonvenzione, al condizionamento.

Poco a poco la donna diventa prigioniera del partner. L’uomo inizia con piccole osservazioni apparentemente insignificanti. Piccole critiche, umiliazioni, intimidazioni. Prese singolarmente non vengono identificate come forme di violenza. Ma considerate nel complesso, diventano un subdolo meccanismo che gli permette di mantenere la presa sulla donna.

Più il tempo passa più la violenza psicologica aumenta. La donna viene isolata. Non può andare al lavoro, non può aprire un conto in banca, non può nemmeno decidere per quello che la riguarda personalmente. Con chi uscire, come vestirsi, prendere o non prendere la pillola. La donna non è più in grado di pensare e sviluppare uno spirito critico.

Alla fine si convince di non capire niente, di non essere in grado di far nulla e accetta la sua situazione. A forza di cedere all’uomo, per un motivo o per un altro, la donna finisce per convincersi che la situazione in cui vive sia la normalità. Da quel momento, non è più in grado di fuggire. Viene condizionata al punto tale da accettare cose che normalmente non accetterebbe. Poi arriva la violenza fisica. Ed è ormai troppo tardi. Ormai è in trappola.

Psicologi e psichiatri specializzati nelle violenze coniugali, concordano nel sostenere che: “Non ci sono violenze fisiche senza una violenza psicologia al principio di tutto. Arriva il primo schiaffo, poi le scuse. La donna pensa ok, è la prima volta, non succederà più”. Poi succede un’altra volta e un’altra ancora. E poi diventa un’abitudine.

La donna si sente quasi colpevole. Come se avesse commesso un qualcosa per cui meritare la punizione. “Forse non ho fatto quello che dovevo fare per farlo smettere”. Lui dice che è stata proprio lei a trasformarlo, a farlo diventare cattivo. L’aggressore riesce a ribaltare la colpa, perché è la donna ad essere pazza. Quindi, è tutta colpa sua. La vittima finisce per crederci.

Da un’indagine Istat, è emerso che solo il 12% delle donne vittime di violenze domestiche denuncia il proprio carnefice. E quelle che denunciano, o provano a farlo, spesso si ritrovano sole. Infatti, non denunciano per paura. Per il timore di non essere credute, per la vergogna e l’imbarazzo. Ma anche, purtroppo, per sfiducia nelle forze dell’ordine.

Infatti, alle denunce presentate “Hanno fatto seguito imputazioni nel 29,7% dei casi. Sono state adottate misure cautelari nel 19,8% dei casi, che sono state poi violate per il 31,5% delle volte” – Istat. La donna, quando denuncia, non ha nessuna certezza di essere al sicuro.

Generalmente, quando lo fa, vuol dire che l’uomo è andato veramente oltre. Oppure, la sua violenza ha colpito anche i figli. In quel momento, la donna si rende conto di dover fare qualcosa. Si rende conto che l’unica soluzione è lasciare il proprio partner.

Questo è il momento più pericoloso. La separazione è la prima causa del femminicidio. Molti uomini, infatti, considerano la donna di loro proprietà. E non sopportano l’idea di vederla libera e felice da sola. Non ti uccido, ti porto via con me. Ti porto via con me. Perché questo, ai loro occhi, si rivela come l’unico modo per controllarla definitivamente. Ucciderla.

Bisogna prendere coscienza del fatto che la violenza psicologica e fisica sulle donne è una realtà quotidiana, non si tratta di casi isolati. Iniziare a capire queste dinamiche, le aiuterebbe a scappare, ad andar via, a ribellarsi. Perché saprebbero che possono essere capite. Troppo spesso, invece, si sentono sole e incomprese.

E noi ci chiediamo Perché non è andata via? Perché dopo essere andata via è tornata? Perché ha sporto denuncia e poi l’ha ritirata?

“Perché quando andiamo via, spesso nessuno ci da ascolto e non sappiamo dove andare. Perché è ingiusto, non vorremmo andare via. Vorremmo che fosse lui a partire. Questa è una delle prime risposte che tutti dovrebbero capire. Non chiedeteci perché non andiamo via. Chiedete perché lui non se ne va“.

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