Cresce negli ultimi anni il numero di studentesse e studenti scomparsi, episodi bui consumatosi spesso tra le mura universitarie tra il silenzio negligente delle istituzioni e del mondo accademico. Solo nelle ultime settimane, due i casi che hanno coinvolto studenti universitari: dalla tragica morte di uno studente di 25 anni a Napoli, alla Federico II, fino alla scomparsa senza lasciare tracce di un 23enne, studente di ingegneria a Pisa.
Così, in occasione della cerimonia di consegna dei diplomi di laurea avvenuta giorni fa, 3 studentesse della Normale di Pisa hanno denunciato il clima che si respira nelle università italiane ed europee: il culto della competitività, della performance, prodotto di una concezione della formazione e della ricerca distorta, ha asservito questi due mondi a logiche di profitto, rendendo non solo difficile il percorso per le giovani generazioni, ma relegando questi due mondi a logiche aziendali.
Esiste infatti una mercificazione dell’istruzione che spinge ad una continua competizione sui banchi d’università. L’obiettivo di chi studia non è acquisire una serie di conoscenze e competenze utili nella vita, nel mondo del lavoro, nella realizzazione della professione che si è pensato di intraprendere. Studiare e formarsi non significa essere uomini e donne più attenti, cittadini e cittadine più consapevoli, esercitare il proprio spirito critico ed essere protagonisti e protagoniste del mondo che ci circonda.
La logica neoliberista degli ultimi decenni ha prodotto un prototipo irrealistico nella formazione accademica: si studia per servire il mercato, per produrre e non per cultura, per consapevolezza, per essere cittadine e cittadini consci della realtà circostante. L’istruzione, la formazione e la ricerca sono asservite a culto della performance esasperata, per cui il laureato, o la laureata, non può essere considerata una persona ma il prodotto finale di un vero e proprio processo produttivo che vede la sua appetibilità sul mercato lavorativo in modo direttamente proporzionale alla media conseguita e inversamente al tempo impiegato nel concludere il proprio percorso accademico.
Studiare, quindi, non è più una libera scelta ma quasi un obbligo imposto da una logica che sembra ricalcare la teoria evoluzionistica darwiniana: per sopravvivere nella giungla della società non basta frequentare l’università, le lezioni, conseguire esami, scrivere la tesi e laurearsi. Non è sufficiente. L’istruzione, la formazione e la conoscenza sono intrise da una dinamica perversa che spinge studenti e studentesse in una sorta di competizione individualistica contro i compagni di corso, gli altri laureati, la società, sacrificando non solo il proprio spirito critico, ma anche se stessi.
Quest’idea estremamente errata, che premia unicamente la meritocrazia e svilisce il valore dell’istruzione, della conoscenza e della cultura, avalla in primo luogo le disuguaglianze sociali presenti nel nostro Paese. È infatti innegabile che il gap di genere passi anche dal constatare che le posizioni di ruolo ricoperte da donne all’interno delle Università siano minoritarie e come invece rappresenti un dato importante la percentuale che relega le donne a posizioni di precariato. In seconda istanza, esiste una narrazione per cui benessere e felicità passano necessariamente dal successo nella vita. Quasi a sottolineare come esistano degli standard definiti entro cui rientrare per non essere considerati “depressi” o “falliti”.
“Deprimersi”, in questo senso, è un lusso che non ci si può permettere, come se si potesse utilizzare il tasto i swich-on/off per scegliere i propri stati d’animo, controllare le proprie emozioni. La continua pressione psicologica cui si è sottoposti spinge in tanti e tante a correre allo stremo delle proprie forze, a sacrificare la propria gioventù, gli affetti stabili e spesso la salute in virtù di un mantra comune che permea l’opinione pubblica: “Là fuori cercano giovani brillanti e laureati col massimo dei voti e nel minor tempo possibile.”
La realtà dei fatti, però, restituisce un quadro del tutto differente. Gli studenti e le studentesse che lavorano o chiunque viva un periodo della propria vita particolare, avrà sicuramente maggiore difficoltà nel concludere i propri studi nei tempi stabiliti o addirittura in tempi precoci. La mancanza di una stabilità economica alle spalle, unita alla mancanza di sussidi strutturali volti ad agevolare il diritto allo studio, è uno dei fattori determinante l’eventuale rallentamento della propria carriera accademica. A ciò si aggiungono una serie di difficoltà non solo soggettive, e quindi legate alle personali esperienze di chi studia, ma anche oggettive, le cui cause annidano in una mancanza di servizi basilari che talvolta incidono pesantemente sull’andamento del proprio percorso di studi.
Laurearsi quindi non può essere una competizione e legittimare come modello quello della laurea in tempi brevi, con il massimo dei voti e in un’università privata è legittimare un vero e proprio privilegio di classe, nella misura in cui non si tengono minimamente in conto dei differenti contesti sociali, culturali ed economici di provenienza di studentesse e studenti. La formazione e la cultura non devono essere mercificate e l’università non può essere considerata alla stregua di un esamificio o di un’azienda. L’intelligenza delle giovani generazioni non deve essere schiava di un’estenuante lotta per accaparrare posti di lavoro spesso precari, briciole di un mercato del lavoro che la società e i governi hanno preferito lasciarci.
Il nostro Paese deve permettere a tutte e tutti il libero e gratuito accesso all’istruzione e la pari dignità di prospettive lavorative e di ricerca a prescindere dai percorsi accademici intrapresi, il tipo di università frequentata e il tempo necessario a concludere i propri studi. La realtà italiana del precariato, la mancanza di solide prospettive negli ambienti accademici, i sottofinanziamenti nel comparto della Ricerca e l’imprevedibilità del mercato del lavoro che non riesce a rispondere ad una domanda d’impiego che è reale, costituiscono un reale ostacolo per laureate e laureati.
Finché il nostro Paese non restituirà dignità alla conoscenza, alla formazione e alla cultura, difendendo il diritto allo studio, la libera ricerca e l’impegno civico e svincolando questi dall’idea che crescere e andare avanti implichi appiattirsi, rinunciare alla propria dignità e sottostare ad uno schema di subordinazione, l’Italia non potrà mai realmente investire sul proprio futuro.