martedì, 30 Aprile 2024

Sally Rooney e il mondo della cultura che boicotta Israele. E l’Italia resta a guardare

L'autrice di Normal People ha deciso che il suo nuovo romanzo non verrà tradotto in ebraico da case editrici favorevoli all'apartheid. Una scelta sostenuta da altre personalità del mondo della cultura, ma che ha scatenato anche numerose polemiche, fino a paragonarla alla Germania nazista.

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Sempre più personalità del mondo della cultura stanno prendendo posizione contro Israele. Dopo Roger Waters, Patti Smith, John Legend e Alice Walker, anche la scrittrice irlandese Sally Rooney ha scelto di boicottare lo “stato” sionista a favore del popolo palestinese. L’autrice dei fortunatissimi Conversations with Friends Normal people (da cui è tratta l’omonima serie tv Hulu) ha infatti rifiutato un’offerta dall’editore israeliano che ha tradotto i suoi due romanzi precedenti in ebraico. Beautiful world, where are you, che in Italia sarà disponibile a partire dal 2022, non avrà dunque una sua versione in lingua ebraica.

In una dichiarazione rilasciata martedì, Rooney ha spiegato la sua decisione, dichiarando che, se era “molto orgogliosa” di aver tradotto i suoi romanzi precedenti in ebraico, attualmente ha “scelto di non vendere questi diritti di traduzione a una casa editrice con sede in Israele”. La “Salinger della generazione Snapchat”, com’è stata definita tempo fa dalla casa editrice Faber and Faber, ha espresso il suo desiderio di sostenere la campagna BDS, Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, che opera per “porre fine al sostegno internazionale all’oppressione israeliana dei palestinesi e fare pressione su Israele affinché rispetti il ​​diritto internazionale”. “All’inizio di quest’anno, Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto intitolato A Threshold Crossed: Israeli Authorities and the Crimes of Apartheid and Persecution – continua la dichiarazione di Sally Rooney. Quel rapporto, che arriva sulla scia di un altro altrettanto dannoso della più importante organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, ha confermato ciò che i gruppi palestinesi per i diritti umani affermano da tempo: il sistema israeliano di dominazione razziale e segregazione contro i palestinesi soddisfa la definizione di apartheid ai sensi della legge internazionale legge”. Rooney ha anche asserito di aver risposto, con la sua decisione, all’appello della società civile palestinese, “compresi tutti i principali sindacati palestinesi e i sindacati degli scrittori”.

Secondo quanto riferito dalla scrittrice, in molti, nel mondo della cultura, non sarebbero d’accordo con la sua posizione. Ma questo non l’ha fermata dalla sua scelta di non collaborare con un’azienda israeliana che, tra l’altro, pare non aver preso pubblicamente le distanze dalla politica di apartheid del governo sionista e non sostiene i diritti del popolo oppresso sanciti dall’ONU. “I diritti di traduzione in lingua ebraica del mio nuovo romanzo – continua la dichiarazione – sono ancora disponibili, e se riesco a trovare un modo per venderli conformemente alle linee guida del boicottaggio istituzionale del movimento BDS, sarò molto lieta e orgogliosa di farlo”. Normal People, infatti, è stato tradotto in ben 46 lingue, tra cui l’ebraico, e ci si aspettava che anche il terzo romanzo di Rooney avrebbe avuto una sua versione per il mercato israeliano.

Lo scorso mese, il quotidiano sionista Haaretz aveva già anticipato la decisione di Rooney riportando la notizia secondo la quale l’agente della scrittrice aveva annunciato alla casa editrice Modan che non ci sarebbe stata una traduzione in ebraico, visto il sostegno al movimento BDS. A maggio Sally Rooney aveva anche firmato una lettera contro l’apartheid, sostenendo “una cessazione immediata e incondizionata della violenza israeliana contro i palestinesi” e chiedendo ai governi di “tagliare le relazioni commerciali, economiche e culturali”. Tra i firmatari anche la giornalista e attivista canadese Naomi Klein, autrice del bestseller internazionale No logo, manifesto no global del nuovo millennio.

Ovviamente, non sono tardate le polemiche. Gitit Levy-Paz del Jewish People Policy Institute si è detta “sorpresa e rattristata”, definendo la scelta della scrittrice irlandese “un anatema per l’essenza artistica della letteratura”, la quale, con “il suo potere di portare un senso di coerenza e ordine nel mondo, è negata dalla scelta di Rooney di escludere un gruppo di lettori a causa della loro identità nazionale”, ha scritto la docente della Bar-Ilan in un articolo sul The Jewish Forward. Secondo Levy-Paz, inoltre, il gesto di Sally Rooney non sarebbe molto diverso da quello della Germania nazista che, tra i primi provvedimenti contro il popolo ebraico, aveva avviato un boicottaggio delle imprese semite. “Non sto suggerendo che Rooney sia antisemita, o che la critica a Israele costituisca automaticamente antisemitismo. Ma visto l’aumento dell’antisemitismo negli ultimi anni, soprattutto in Europa, il momento della sua scelta è pericoloso”. Un’accusa immotivata e molto grave.

Sally Rooney non è né la prima né l’ultima personalità del mondo della cultura ad essersi schierata a favore dei palestinesi. A maggio di quest’anno 600 musicisti hanno sottoscritto una lettera aperta in sostegno del popolo oppresso e dei diritti delle persone residenti nei territori occupati. Tra questi figurano Julian Casablancas dei The Strokes, Rage Against The Machine, Patti Smith, Run The Jewels, Roger Waters e Questlove. “Vi chiediamo di unirvi a noi con il vostro nome nel rifiuto di esibirvi presso le istituzioni culturali complici di Israele e rimanendo fermi nel vostro sostegno al popolo palestinese e al suo diritto umano alla sovranità e alla libertà – recita l’appello degli artisti. Crediamo che questo sia fondamentale per vivere un giorno in un mondo senza segregazione e apartheid”.

Migliaia di artisti e operatori culturali hanno aderito negli anni al movimento BDS. A partire dal 2015 numerose iniziative sono state lanciate a Montreal, Irlanda, Sud Africa, Svizzera, Libano, Stati Uniti. Artisti come Costello, Gil Scott-Heron, Lauryn Hill, Faithless, Marianah, U2, Bjork, Zakir Hussain, Jean-Luc Godard, Snoop Dogg, Cat Power e Vanessa Paradis hanno annullato le loro esibizioni nei territori occupati dal governo sionista nonostante le offerte di ingenti somme di denaro. Gli stessi promoter israeliani lamentano che sta diventando sempre più difficoltoso per loro attrarre artisti di fama mondiale. Il boicottaggio culturale di Israele sta prendendo sempre più piede, non solo grazie al lavoro degli attivisti, ma soprattutto con l’aiuto degli artisti, il cui ruolo è di fondamentale importanza per calamitare l’attenzione dei meno informati.

In Italia non sono molte le personalità del mondo dello spettacolo e della cultura che si sono apertamente schierate contro le politiche di apartheid di Israele. Fatta eccezione per sporadici commenti dopo gli scontri a Sheikh Jarrah e l’attacco alla moschea di al-Aqsa, e qualche riferimento a Vittorio “Vik” Arrigoni (giornalista e scrittore italiano, in prima linea nella lotta contro la pulizia etnica, rapito e assassinato a Gaza nel 2011), nessuno ha parlato di boicottaggio. Tuttavia, nel novembre del 2020, il quotidiano The Guardian ha pubblicato una lettera firmata da 122 intellettuali palestinesi e arabi che criticavano la “definizione operativa” di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra), l’organizzazione intergovernativa per promuovere l’educazione sull’Olocausto. La nuova definizione era stata adottata anche dall’Italia, motivo per il quale la missiva è stata sostenuta anche da 276 membri del nostro mondo culturale, tra cui Salvatore Settis, Livio Pepino, Carlo Rovelli, Marco Paolini, Moni Ovadia e Alessandra Farkas.

Si avverte però la pesante assenza della cultura mainstream nel dibattito sulle violazioni di Israele. Una mancanza poco tollerabile vista la capacità di attrazione sui social di alcuni personaggi del mondo dello spettacolo italiano. Un peccato, ma forse anche una dimostrazione involontaria di coerenza: non sarebbe certo giusto pubblicare delle Instagram stories per sensibilizzare i fan sul tema indossando un paio di Puma (sponsor dell’IFA, associazione israeliana di calcio che include sei squadre con base nelle colonie). Rispetto agli omologhi oltreconfine (soprattutto oltreoceano), chi fa parte del mondo dello spettacolo riserva spesso un approccio molto superficiale a questioni che riguardano i diritti umani. Prima ancora della nuova ondata del movimento per la liberazione della Palestina, le parate per il Black Lives Matter nostrano avevano ampiamente dato prova della sommarietà del coinvolgimento italiano. Eppure, il nostro Paese non è estraneo alla tematica e potrebbe avere un BLM del tutto peculiare, visto l’alto numero dei braccianti provenienti dal continente africano, sfruttati e non tutelati. Emerge da tutto ciò un attivismo flash, come una sorta di pubblicità in mezzo ad altri contenuti. Un minimo indispensabile che prova a testimoniare un essere dalla parte giusta, ma che non basta.

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