venerdì, 19 Aprile 2024

Covid, Hiv e la paura dell’altro: un paragone che non regge

In comune c'è solo la paura di rapportarsi con una persona sconosciuta in un momento storico come questo; ma i due virus hanno modi di influire totalmente diversi.

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di Francesca Iervasi e Pietro Milella
Il covid ha cambiato molte cose, i rapporti interpersonali, quelli familiari, perfino gli appuntamenti in chat. In un mondo in cui i social regnano sovrani per il lavoro e per gli incontri, in quest’ultimo ambito la pandemia ha fatto sentire il suo peso. Con il propagarsi del Coronavirus si è diffusa a macchia d’olio la paura di contrarre una malattia a tratti subdola e che inconsciamente sembra spaventare le persone come solo l’HIV aveva fatto in passato. 
La paura del contatto, in certi momenti, ha toccato vette maniacali, superando quelle che erano le prescrizioni in materia di contenimento dell’epidemia. Il parallelismo è inevitabile, tra la paura della malattia sconosciuta, l’incognita del partner e l’idea di ammalarsi volutamente. 

In alcuni casi la psicosi ha superato addirittura quella dell’HIV. Un giro su Grindr, nota app di incontri gay, farebbe ipotizzare che in questo periodo la gente presti più attenzione al tampone o al vaccino che allo status di salute sessuale. Scorrendo i profili si trovano descrizioni in cui gli utenti indicano il vaccino che hanno ricevuto o se hanno fatto un tampone di recente. Alcuni addirittura si definiscono #teampfizer #teammoderna e via dicendo. Persino la stessa frase “A o P”, che solitamente si traduce in attivo o passivo, è stata ironicamente declinata in AstraZeneca o Pfizer. Un comportamento che molto spesso è in contrasto con lo status sessuale. Su alcuni profili si trovano descrizioni di persone che attestano l’immunizzazione o richiedono la vaccinazione del partner, ma non specificano lo status in merito alle MST Malattie Sessualmente Trasmesse. Pur trattandosi di un dato estremamente sensibile, la sieropositività o meno, molti non indicano neanche la data dell’ultimo test HIV, ma richiedono una compagnia che abbia fatto almeno il tampone di recente quando non già protetta dal Coronavirus. Il parallelismo Covid-HIV-sieropositività richiama sicuramente gli anni ’80, quando la malattia era uno stigma mediaticamente legato al mondo omosessuale, ma oggi basterebbe solo un educazione sessuale basilare per capire che le cose non stanno affatto così.

Negli anni ‘80 il cancro dei gay, com’era definito dalle testate di tantissimi Paesi occidentali, ha mietuto migliaia di vittime. Molti ricorderanno la famosa scena di Philadelphia in cui Denzel Washington, l’avvocato Joe Miller, dopo aver stretto la mano al premio oscar Tom Hanks, Andy Beckett, il collega malato di Aids, si guarda il palmo con riluttanza, come se il solo contatto fisico potesse contagiarlo. Fu la morte di  Rock Hudson, nel 1985, e la diffusione della sindrome in Africa, India e Sud America a scardinare l’idea che si trattasse di una malattia che colpisce soltanto gli omosessuali. In Italia, il 20 luglio del 1985, venne mandata in onda la prima pubblicità progresso per sensibilizzare la popolazione alla prevenzione: “Aids, se lo conosci, non ti uccide”. Per la prima volta si diceva agli italiani che uno scambio di saliva o una stretta di mano non erano veicoli di contagio, diversamente dall’utilizzo di siringhe usate e dai rapporti non protetti. Uno degli spot più memorabili, che andò in onda dal 1987 alla metà degli anni ‘90, resta sicuramente “Aids: se lo conosci lo eviti, se lo conosci non ti uccide”. Probabilmente ricorderemo tutti quella linea viola che, abbracciando i protagonisti della pubblicità, simulava il contagio. 

Forse se la ricordavano anche gli sceneggiatori di “Il coronavirus può ancora toccarci da vicino: tocca a noi fermarlo” del ministero della Salute: un segno rosso che circondava tutte le persone che, non rispettando le basilari norme anticontagio, favorivano la propagazione del virus. A marzo 2020, quando i casi di Covid cominciavano a moltiplicarsi in Italia, sono stati tanti quelli che hanno paragonato la pandemia del decennio all’influenza spagnola e, soprattutto, all’Aids. “Non c’è paragone” scriveva lo scorso anno l’attivista, blogger, scrittore e attore americano Mark S. King, positivo all’Hiv dal 1985. “A nessuno importava delle persone che morivano di Aids nei primi anni della pandemia […] All’inizio degli anni ’80, l’Aids stava uccidendo tutte le persone giuste: omosessuali, tossicodipendenti e uomini e donne di colore. Non c’è paragone con un nuovo focolaio virale che potrebbe uccidere le persone che la società in realtà apprezza, come tua nonna e le sue amiche nella casa di cura”. Come sottolinea lo stesso attivista, la politica, all’epoca, non fece nulla per aiutare i malati i quali venivano perfino cacciati dagli appartamenti in cui vivevano o licenziati – esattamente come Andy Beckett nel film di Jonathan Demme.

In Italia, nel 1988, alcune strutture di Villa Glori, a Roma, furono convertite in centri per accogliere e curare i malati di Aids. L’iniziativa scatenò lo sdegno di alcuni cittadini che firmarono petizioni per chiudere i padiglioni destinati al trattamento di un male che loro stessi definivano “equivalente alla peste”. Quando le nostre città e i nostri paesini si sono trasformati in zone rosse a causa dei focolai di coronavirus, nonostante la paura e la caccia all’untore – spesso promossa dagli stessi telegiornali che andavano alla ricerca del cosiddetto paziente zero come un templare col Graal – nessuno ha proposto istanze per allontanare dagli appartamenti chi era in quarantena. Intere comunità hanno persino affiancato la Protezione Civile nel portare spesa e beni di prima necessità a casa di queste persone. 

Secondo UNAIDS, il Programma delle Nazioni Unite per l’HIV e l’AIDS, solo nel 2019 sono state 690mila le persone in tutto il mondo morte per complicanze connesse alla sindrome da immunodeficienza acquisita. Il primo rapporto del Centers for Disease Control and Prevention sui malati di Aids risale a 40 anni fa. Sono passati 4 decenni e ancora non esiste un vaccino per salvare miliardi di persone. Meno di un anno dopo l’annuncio del primo lockdown l’Europa stava già immunizzando la sua popolazione. No, non si può paragonare il Covid all’Aids.

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