martedì, 19 Marzo 2024

Israele-Palestina, una guerra mondiale senza fine

Il conflitto in Medioriente nasce da molto lontano, nella storia e nei luoghi. L'ultima volta che il Medioriente è andato veramente vicino alla Pace è stato con Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, proprio per questo insigniti del Premio Nobel

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Quando si parla del conflitto israelo-palestinese, si pensa ad una matassa di interrogativi. Una matassa che risulta meno complicata se sono i processi storici a tirare le fila del mutamento di quella guerra nata per certe motivazioni ed evolutasi in tutt’altro. Una matassa fatta di un movimento collettivo che fa sì che i suoi protagonisti cambino e, con essi, ciò che vorrebbero rappresentare. Il conflitto tra israeliani e palestinesi, continuamente richiamato dai media, pare mutare sì, ma al contempo sembra ripetersi ossessivamente, sempre con gli stessi cliché.

Il conflitto ha in realtà una complessa storia, che si dirama nel corso di più di un secolo.
Si può dire, come scritto da Claudio Vercelli in Storia del conflitto israelo-palestinese – Laterza, Roma-Bari 2020, che il conflitto “è, per vari aspetti, un catalogo della modernità politica e culturale, nascendo nell’età della definitiva affermazione degli Stati nazionali, maturando a cavallo delle due guerre mondiali, esplodendo negli anni della decolonizzazione per poi arrivare fino a noi, come una matassa insoluta di contraddizioni, di speranze, di delusioni, di paure e di aspettative”.

La guerra senza quartiere che riguarda israeliani e palestinesi è la più complessa al mondo: di base, riguarda il contendersi luoghi frequentati da secoli da entrambe le parti. Alla base della guerra, c’è un problema di riconoscimento reciproco: la maggior parte dei palestinesi considera gli israeliani come invasori stranieri che non hanno alcun diritto di stabilirsi in una terra che loro abitano da secoli, invece moltissimi israeliani ritengono che il legame dei palestinesi con i luoghi della Bibbia non sia forte quanto il loro.

Un passo indietro: le ragioni storico-politiche alla base del conflitto
A ben vedere, al di là dei motivi ideologici o territoriali, c’è un chiarissimo responsabile politico all’origine del conflitto: la Gran Bretagna. Per assicurarsi l’aiuto decisivo nella Prima guerra mondiale, l’Inghilterra promise, contemporaneamente, con calcolo a dir poco cinico, agli arabi il pieno sostegno all’indipendenza e alla creazione dello Stato arabo e agli ebrei, con la dichiarazione Balfour del 1917, l’appoggio incondizionato alla nascita dello Stato ebraico in Terra Santa dopo secoli di oppressioni.

In pratica, la faida tra israeliani e palestinesi che ha segnato indelebilmente il secolo scorso e quello in atto, non è altro che l’evoluzione di ciò che è stato provocato dall’imperialismo inglese e dalla visione di umanità occidentale dominante agli inizi del ‘900. La storia è testimone del fatto che l’Inghilterra tradì tutte le promesse fatte agli arabi, nonostante il loro apporto decisivo nella vittoria contro i turchi, mentre spalleggiò per interessi economici e commerciali le aspirazioni sioniste degli ebrei, che dagli anni ‘20 accrebbero la propria presenza in Palestina, e in modo esponenziale dopo la grande fuga dalle persecuzioni naziste negli anni ‘30 e ‘40 del Novecento, fino al ritiro definitivo degli inglesi e la nascita nel 1948 dello Stato d’Israele.

L’attuale situazione è poi frutto di uno stallo iniziato con la Guerra dei Sei Giorni, avvenuta nel 1967. Al termine della guerra, Israele occupò tutta la Cisgiordania e soprattutto Gerusalemme Est, la porzione della città che la maggior parte della comunità internazionale assegna ai palestinesi. Da allora Israele ha pian piano ceduto alcuni dei territori conquistati, come la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, a forme di autogoverno palestinese, ma mantenendo il diritto di intervenire militarmente e costruire insediamenti in tutti i territori ceduti.

I palestinesi, anelando indipendenza, hanno cercato spesso di trovare il modo di sconfiggere definitivamente gli israeliani; e quando hanno capito che non era più possibile a causa dell’accresciuta potenza militare di Israele, diversi gruppi radicali hanno scelto di passare alla lotta armata, legittimata anche da quelli meno radicali, per fare pressione affinché le autorità israeliane cedessero pezzi di territorio. A tutto questo ovviamente, va aggiunta la smisurata sproporzione di mezzi economici e militari, risorse tecnologiche, comunicazione e influenza esistente da sempre – e in modo incredibile oggi – tra palestinesi e israeliani.

Come dichiarato dallo storico Avi Shlaim, “I palestinesi hanno una ragione grande sostenuta da mezzi deboli. Anche Israele ha una ragione, forse meno grande, ma sostenuta da mezzi straordinari”.

Nonostante gli innumerevoli tentativi, le due parti non sono mai riuscite a trovare un compromesso né su una gestione condivisa di Gerusalemme né sull’assetto del futuro stato palestinese, auspicato dalla maggior parte della comunità internazionale. Il limbo in cui i palestinesi vivono da decenni, soprattutto quelli della Striscia di Gaza soggetti da anni a un durissimo embargo, e lo stato di militarizzazione permanente in cui vive Israele – uno dei rarissimi paesi occidentali ad avere un servizio di leva obbligatorio – si autoalimentano a vicenda, generando periodiche tensioni e violenze.

La situazione politica contemporanea
In Israele negli ultimi due anni si sono tenute ben quattro elezioni parlamentari, nessuna delle quali ha prodotto una maggioranza stabile. Il primo ministro Benjamin Netanyahu è in carica ormai da 12 anni, ma è sempre più logorato dai processi per corruzione in corso e dall’assenza di una forte maggioranza politica che lo sostenga; in tutti i suoi ultimi governi, Netanyahu è stato ostaggio degli interessi di parte, soprattutto dei potentissimi e influenti partiti della destra nazionalista religiosa, che peraltro negli ultimi anni sono riusciti a spostare molto verso destra il dibattito pubblico israeliano.

L’assenza di un governo stabile ha comportato che non ci fosse «un adulto responsabile» che impedisse pericolose escalations. Poco prima dell’inizio del nuovo ciclo di violenze, Israele sembrava indirizzato verso le quinte elezioni parlamentari, da tenere probabilmente in autunno. Inoltre il 2 giugno, almeno in teoria, nel paese si voterà per eleggere il nuovo presidente della Repubblica: una carica largamente cerimoniale che però ha enorme importanza nei periodi di formazione del governo, dato che assegna personalmente il mandato di primo ministro.

In questi anni il presidente Reuven Rivlin, un conservatore moderato, ha rappresentato un discreto contraltare alla svolta a destra dei governi Netanyahu: e non è chiaro cosa potrebbe accadere se fosse sostituito da un politico con posizioni più radicali.

In Palestina le ultime elezioni presidenziali si sono tenute nel 2005, mentre le ultime parlamentari nel 2006 (e il loro esito ha prodotto una fortissima guerra civile). Nuove elezioni presidenziali e parlamentari vengono periodicamente indette da anni, senza mai essere organizzate per davvero. Wikipedia ha anche un’apposita pagina sulla questione intitolata genericamente “Prossime elezioni palestinesi”. Queste lungaggini sono attribuite soprattutto all’Autorità Palestinese, una forma abbozzata di stato palestinese, di fatto mai diventata uno Stato, che però dal 2005 governa la Cisgiordania. La Striscia di Gaza è invece governata di fatto dal gruppo politico-terrorista di Hamas.

Il gruppo dirigente dell’Autorità Palestinese è ancora quello che ruotava attorno allo storico leader Yasser Arafat, morto nel 2004: è composto soprattutto da uomini molto anziani ormai poco a contatto con l’elettorato palestinese, ma comunque restii a cedere il proprio potere.

A gennaio Abbas aveva promesso di indire nuove elezioni in tutta la Palestina, ma si è rimangiato la promessa appena tre mesi dopo, attribuendo la sua decisione allo scarso coordinamento con le autorità israeliane; una motivazione che diversi osservatori hanno giudicato una scusa per timore di sottoporsi al giudizio elettorale dei palestinesi.

Non aiuta il fatto che in Israele e nei territori governati dai palestinesi la gestione della pandemia da coronavirus sia stata molto diversa. Israele è tra i paesi più in avanti con la campagna vaccinale al mondo, grazie soprattutto a un enorme stanziamento del governo per ottenere tante dosi del vaccino Pfizer-BioNTech. Nei territori palestinesi, invece, la vaccinazione va molto a rilento, sia per una carenza di strutture sanitarie e di risorse economiche, sia per le difficoltà legate all’embargo di Israele nei confronti della Striscia di Gaza.

La goccia che ha fatto (di nuovo) traboccare il vaso: cosa sta succedendo in queste settimane
È dal 2014 che non si assiste a tanti scontri. La climax ascendente di violenza e attacchi di questi giorni, è stata innescata da una vecchia disputa legale che la Corte Suprema israeliana avrebbe dovuto risolvere lunedì 10 maggio con una sentenza definitiva, poi rinviata a causa delle tensioni crescenti.

La disputa riguarda Sheikh Jarrah, un quartiere di Gerusalemme Est, dove da decenni alcune famiglie palestinesi rischiano di essere sfrattate da una casa che venne donata loro dal governo della Giordania, con l’appoggio dell’ONU, nel 1956, quando Gerusalemme Est era controllata dalla monarchia giordana. Purtroppo, quei terreni erano di proprietà di alcune comunità di ebrei, che si erano allontanate a causa delle violenze della guerra del 1948. La legge israeliana prevede che tutti gli ebrei che hanno lasciato le proprie case nel 1948 possano rientrarne in possesso: il problema però è che la stessa prerogativa – chiamata anche “diritto di ritorno” è vietata ai palestinesi. Sheikh Jarrah inoltre si trova a Gerusalemme Est, cioè in un territorio che gran parte della comunità internazionale assegna ai palestinesi.

All’avvicinarsi del giorno della sentenza ogni sera, la scorsa settimana, decine di attivisti per i diritti dei palestinesi avevano manifestato contro gli sfratti, attirando sia le attenzioni dei giornali internazionali sia quelle dei palestinesi sparsi fra Israele, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.

Il coinvolgimento di Hamas
L’annullamento delle elezioni aveva messo il gruppo in una posizione scomoda, costringendolo a continuare a collaborare con i nemici storici di Israele e gli avversari dell’Autorità Palestinese controllata da Fatah, il principale partito laico palestinese, per gestire le conseguenze della pandemia. Hamas si preparava da mesi al voto, tanto che aveva già iniziato a tenere delle primarie interne.

In un certo senso, per Hamas, i fatti di Sheikh Jarrah e le solite manifestazioni del Ramadan erano un’occasione imperdibile per mettersi a capo delle proteste e riaffermare la propria presa sull’elettorato palestinese. Così Hamas ha di fatto infiltrato i movimenti di protesta con i propri membri, alimentato la tensione con i propri mezzi di comunicazione e soprattutto superato esplicitamente quella che il governo israeliano considera una linea rossa, cioè la sicurezza degli israeliani che abitano a Gerusalemme e Tel Aviv, prese più volte di mira dai lanci di razzi compiuti in gran parte proprio da Hamas. L’espediente sembra avere già funzionato: sui giornali israeliani ci sono diverse analisi secondo cui Hamas “avrebbe già vinto”.

Le immagini del panico scatenato dalle sirene che annunciano l’arrivo dei razzi palestinesi e del Parlamento israeliano evacuato per timori di un attacco hanno permesso ad Hamas di ottenere una vittoria mediatica nel dibattito interno palestinese. Di fatto dunque, Hamas ha già vinto la battaglia per il controllo delle proteste con Fatah, che infatti negli ultimi giorni si è fatta sentire pochissimo.

La scena internazionale
Gli Stati Uniti, da sempre alleati di Netanyahu, hanno affermato il diritto di Israele all’autodifesa. Anche l’Europa segue preoccupata l’evolversi del conflitto, ma è chiaro ciò che ci si aspetta, specie a sentire le parole del vice ambasciatore israeliano a Bruxelles, Walid Abu Haya, che ha dichiarato: “L’ Europa può stare con Israele e questo è ciò che Israele si aspetta dall’Europa. Israele condivide valori con l’Europa. Israele condivide la storia con l’Europa. Israele ha bisogno di amici dall’Europa e abbiamo molti amici in Europa. Israele ha chiesto all’Europa di denunciare molto chiaramente Hamas. Hamas è un’organizzazione terroristica secondo l’Europa. L’Europa deve stare con Israele e sostenere Israele. Questo è quello che so e questo è quello che mi aspetto dall’Europa “.

Diversi paesi, tra cui la Cina, hanno chiesto una seconda riunione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e Joe Biden ha chiesto a Benyamin Netanyahu “una significativa de-escalation” immediata per una tregua a Gaza. C’è da aggiungere che Israele rifiuta il coinvolgimento delle Nazioni Unite, mentre gli stati arabi si limitano ad abbozzare timide dichiarazioni, preferendo di tenersi fuori. Diversamente, l’Arabia Saudita ha apertamente condannato le azioni di Netanyahu, facendo eco alle parole del presidente turco Erdogan, che ha dichiarato che la Turchia farà tutto ciò che è in suo potere per mobilitare il mondo intero, e soprattutto il mondo islamico, per fermare il terrorismo e l’occupazione di Israele. Anche Angela Merkel si è espressa sulla questione, dicendo che senza contatti con Hamas “non può esserci un cessate il fuoco” e che con Hamas sta trattando l’Egitto. Merkel ha sottolineato che il Cairo è “un player molto importante, quando si tratta di decidere se ci sarà una tregua”.

Un conflitto impari
I bombardamenti, il massacro di bambini ammazzati di notte insieme alle loro famiglie, la sproporzione evidente tra l’offesa palestinese e la reazione israeliana, non è solo un conflitto impari, ma una mattanza senza fine che ha colpe storiche e responsabili politici.
Solo negli ultimi tre anni, il rapporto tra i morti e i feriti palestinesi e quelli israeliani è di 50mila a 350: quasi 150 volte tanto. Questi non sono i numeri di una guerra, ma di un massacro legalizzato.

Attenzione: riconoscerlo non significa disconoscere i diritti degli ebrei ad avere una propria terra e una propria patria, né parteggiare con i terroristi di Hamas, né tantomeno essere antisemiti. Anzi, lo stesso Moni Ovadia, ebreo, ha denunciato la solitudine della Palestina, sola a combattere contro una gigantesca Israele. Non si può strumentalizzare la Shoah, non si può cedere a questo ricatto, ha sottolineato Ovadia.

Bisogna saper distinguere gli oppressi dagli oppressori. Ieri come oggi, giornata in cui i media danno per accettato da Israele al cessate il fuoco. Con la speranza che duri, con la speranza che si arrivi una volta per tutta alla pace, quella vera, in cui le bombe non esplodono e i razzi non vengono lanciati. L’ultima volta che il Medioriente c’è andato veramente vicino è stato con Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, proprio per questo insigniti del Premio Nobel insieme a Shimon Peres. Il primo, ammazzato a colpi di pistola in un attentato; il secondo, rimasto solo, morto dopo una lunga malattia, indebolito politicamente già da tempo. Israele e Hamas hanno accettato il cessate il fuoco reciproco. L’auspicio è che sia l’ultimo, che non si odano più esplosioni, che i razzi tacciano. Ora c’è bisogno di silenzio.

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