venerdì, 26 Aprile 2024

Giornata contro la violenza sulle donne, il dolore di chi resta. Maria Teresa D’Abdon: “Nelle vittime rivedo la mia Monica”

A quasi vent'anni dalla morte di Monica Ravizza, la mamma ci ha raccontato dello sguardo profondo di sua figlia e della ferita non rimarginabile di chi resta, una voragine da cui ha trovato la forza e il coraggio di far sgorgare "Difesa Donne: Noi ci siamo", acqua limpida per tutte quelle madri e figlie imprigionate in relazioni tossiche.

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«Non faccio altro che ricevere tantissime telefonate da donne che hanno bisogno di aiuto, ciò che mi rende più felice è che in ognuna di loro rivedo la mia Monica, il suo sorriso, la sua voglia di vivere». Nella voce dolcissima di Maria Teresa D’Abdon si avverte a fior di pelle lo strazio di chi è stato condannato a sopravvivere alla morte della propria figlia, accoltellata e bruciata dall’uomo che diceva di amarla, di volerla sposare. Maria Teresa è la madre di Monica Ravizza, giovane donna a cui è stata strappata la vita il 19 settembre 2003, massacrata a 29 anni da uno di quegli amori degeneri che si nutrono di possesso, gelosia e violenza. La sofferenza di Maria Teresa si nasconde dietro ogni suo amabile sussurro e gesto, pieni di speranza, ma fragili e pronti ad andare in pezzi come fossero cristalli. Il dolore di questa madre si è trasformato, però, mediante la sua associazione “Difesa Donne: Noi ci siamo” in una valanga di coraggio che viene infuso quotidianamente alle anime abusate da uomini marci e dalle loro sporche frustrazioni. A quasi vent’anni dal femminicidio di Monica, Maria Teresa ci racconta dello sguardo profondo di sua figlia e della voragine provocata dalla sua morte; ci racconta della ferita non rimarginabile di chi resta, ma da cui lei ha scelto di far sgorgare acqua limpida per dissetare e salvare madri, figlie, donne asfissiate da storie insane.

Monica Ravizza

Maria Teresa, quando e come è iniziato il suo impegno al fianco delle donne che subiscono violenza?
«La mia lotta è iniziata 15 anni fa con “Associazione Italiana Vittime della Violenza”. Poi nel 2021 abbiamo aperto “Difesa Donne: Noi ci siamo, su iniziativa mia, in quanto presidente della stessa, e di Letizia Marcantonio (madre di Rossana Wade, ragazza di 19 anni strangolata e uccisa dal fidanzato il 2 marzo 1991, ndr). Siamo due mamme che hanno perso le proprie figlie e hanno cominciato questo cammino con l’obiettivo di sradicare la cultura della violenza contro le donne. La nostra associazione si propone di fare prevenzione, dare aiuto psicologico e legale a tutte coloro che ne hanno bisogno e chiedono assistenza».

Lei ha sentito l’esigenza di mettersi a disposizione di queste donne dopo la morte di sua figlia. Com’era Monica nelle ultime settimane precedenti alla tragedia?
«Mia figlia Monica aveva 29 anni e nel suo passato aveva avuto un fidanzato che le era stato affianco 10 anni, dopodiché la loro storia è finita. Lei viveva da sola, ma eravamo sempre al suo fianco, cercavamo di proteggerla. Dopo quella sconfitta sentimentale si è rimessa in gioco, ha incontrato un ragazzo che le ha detto che l’amava tantissimo e voleva sposarla. La loro storia è durata 3 mesi, non di più. Un giorno quest’uomo con cui conviveva ci ha chiamato dicendo di essere innamorato di nostra figlia e di volerla appunto sposare, io gli ho risposto: “Scusi ma non ci conosciamo, ma poi per telefono… è meglio vedersi, conoscersi”. Quell’incontro di presentazione non è mai avvenuto. A distanza di pochi mesi da quella conversazione io e mio marito abbiamo deciso di farci una piccola vacanza e prima di partire abbiamo portato mio figlio a casa di Monica. Parliamo di qualche giorno prima della tragedia. Lei era felicissima di passare del tempo con suo fratello, diceva che era contenta di poterlo mettere a dieta. Trascorso quel weekend, siamo tornati a Milano e siamo andati a trovarla. L’abbiamo vista rannicchiata sul suo divano, era strana. Monica era entusiasta del fatto che noi fossimo riusciti a rilassarci e a staccare la spina dalle ansie della quotidianità, ma si vedeva che c’era qualcosa che la preoccupava. Le ho chiesto se avesse qualche problema, se volesse parlarne. “No, no, mamma stai tranquilla… ci sentiamo dopo”, mi ha risposto. Quella è stata l’ultima volta che ho visto mia figlia. Il giorno dopo mi ha chiamato mia suocera, che abitava nello stesso suo stabile, al piano superiore: “Monica non sta bene, ma non è che incinta?”. Le ho risposto che mi pareva difficile lo fosse, ce l’avrebbe detto. Poi mia figlia si è sentita fisicamente meglio ed è tornata a lavoro, maturando la decisione di lasciare il suo compagno e andare via di casa, ponendo così fine alla loro convivenza. Monica voleva il suo spazio e i suoi tempi per poter decidere se interrompere o meno la relazione. Ma lui non si è arreso, dopo qualche giorno ha mandato dei fiori nel negozio dove Monica lavorava, chiedendole di incontrarla ancora una volta».

Cosa ricorda di quel maledetto 19 settembre 2003?
«La sera del 18 settembre lui si è fatto trovare davanti al portone della nuova abitazione di mia figlia. Lei è arrivata in compagnia di una sua amica, erano andate a mangiare una pizza; quest’ultima ha chiesto a Monica se fosse il caso di restare con lei, se volesse, ma lei le ha detto di non preoccuparsi, che non ce n’era bisogno. Da quel momento mia figlia è rimasta sola con lui, non so cosa sia successo, né cosa si siano detti. So solo che quella notte siamo stati chiamati dalla vicina di casa perché dalla finestra di Monica veniva fuori del fumo: io e mio marito ci siamo precipitati, pensando che magari non si fosse accorta che la sigaretta era rimasta accesa e il fumo fosse dovuto a quello… Quando siamo arrivati nell’androne ho visto una barella pronta da portare via, ho pensato: “Dio ti ringrazio, è viva, ce l’ha fatta”. Purtroppo non è andata così. Siamo rimasti nel cortile della sua casa tutta la notte ad aspettare che ci raccontassero cosa fosse successo. Alle prime ore dell’alba del 19 settembre ci hanno convocato nel Commissariato dei Carabinieri per dirci che mia figlia non c’era più, era stata accoltellata e lui aveva cercato di darle fuoco, bruciandole una parte del corpo. Ci hanno informato che Monica aspettava un bambino… sarebbe diventata mamma. Dopo l’atroce tragedia è arrivata l’immensa disperazione e con essa la battaglia legale. L’assassino è stato condannato in primo grado a 18 anni e 6 mesi di reclusione. A quel punto del processo lui ci ha offeso, ci ha detto che era disposto a offrirci 100mila euro di risarcimento per la vita di nostra figlia. Noi siamo andati avanti ovviamente, non erano i soldi che potevano rammendare le piaghe del nostro dolore e ripagarci per la perdita di Monica. In cassazione la pena è stata diminuita a 16 anni e 8 mesi, quell’uomo ci ha ripetuto ancora una volta: “Se volete mi sono rimasti degli spiccioli in cambio di vostra figlia”».

Nonostante tutto questo male, lei dopo la condanna ha voluto incontrare la mamma del colpevole. Come è andato quell’incontro?
«Sì, io sentivo un qualcosa dentro. Avevo una scatoletta che apparteneva a mia figlia e non avevo mai toccato. Un giorno ho sentito una spinta, ho deciso di aprirla, di adorarla, mi lasci passare il termine. Nel scoperchiare quella scatoletta ho trovato la scritta: “Era ora”. Quello era un segno. Allora ho detto ai miei familiari che avrei voluto incontrare la mamma del ragazzo, loro hanno accolto la cosa, dicendomi che se sentivo l’esigenza di farlo, avrei dovuto compiere quel gesto. In occasione dell’anniversario della morte di Monica ho invitato la madre del colpevole a Chiaravalle, ha accettato ed è venuta. Prima della messa per mia figlia le sono andata incontro, l’ho abbracciata e ci siamo sedute insieme. Avevo bisogno di condividere quel dolore, seppur diverso dal mio, era anche lei una mamma che soffriva. Quella madre, però, ha giustificato suo figlio. Mi ha detto che il coltello era lì, come se la storia dovesse andare così, che fosse quello il destino di mia figlia. Dopodiché ho detto basta, di non volerne più sapere e che da quel momento mi sarei dedicata solo alla mia battaglia contro la violenza».

Lei e la sua famiglia dove avete trovato la forza per sopravvivere a questo tormento?
«Siamo andati avanti e abbiamo capito che tutta quella sofferenza accumulata andava incanalata, e che per far rivivere Monica era necessario fare qualcosa. La mia famiglia era distrutta, crollata in una depressione inimmaginabile, però io ho capito che bisognava uscire da quella porta, altrimenti saremmo morti tutti. Ho iniziato a organizzarmi con l’associazione antiviolenza, ad aiutare delle donne. Da quel giorno abbiamo compreso che per prevenire i femminicidi bisognava partire dai ragazzi, ed è per questo che con “Difesa Donne: Noi ci siamo” entriamo in tutte le scuole, negli oratori, per parlare con i giovani e far comprendere loro che la donna va rispettata, amata e protetta. La storia di mia figlia è diventata una rappresentazione teatrale che presentiamo negli istituti scolastici per mostrare alle ragazze come riconoscere un uomo violento e manipolatore. Si tratta di individui che colpevolizzano le donne, spingendole a chiedersi: “È vero che io sono fatta così? Forse è colpa mia”. Quest’opera teatrale dà la possibilità alle giovani donne di riuscire a capire come reagire e scappare da amori malati. Adesso presenteremo in scena la storia di Monica presso l’Ikea di Carugate, nei vari licei qui a Milano; siamo stati invitati come associazione dal Municipio V e avremo quasi 1.200 ragazzi pronti ad ascoltarci. La nostra missione è far sì che non ci siano più morti come quella di Monica, mettere in moto l’ingranaggio giusto per sconfiggere questo cancro».

Cosa si sente di dire alle donne che non hanno ancora trovato il coraggio di denunciare?
«Bisogna venirne fuori, siamo tutti pronti ad aiutarle! Le donne devono trovare la forza per uscire dal guscio di paura che le imprigiona. Siamo qui per ascoltarle, per trovare una soluzione e permettere loro di liberarsi dalle catene della violenza. Spesso si tratta di donne con figli che decidono di non denunciare perché temono possano portar loro via i bambini. Questo è un grandissimo problema. Poi c’è chi trova il coraggio per sporgere denuncia e si ritrova dinanzi a persone che consigliano di lasciar perdere e rientrare a casa. Donne che tornano tra quelle mura e trovano non di certo un uomo pronto a offrire loro cioccolatini, ma violenza. Con la nostra associazione riusciamo a mettere queste ragazze in sicurezza, dando loro un appartamento che permetta di lasciare l’abitazione e sfuggire al carnefice. Solo così possiamo metterle in salvo».

Cosa si sente di dire ai genitori di chi sta vivendo relazioni pericolose, cosa possono fare per aiutare le proprie figlie o i propri figli?
«Posso solo dire di cercare di stargli vicino e fargli capire che l’amore non è quello, che una storia può e deve essere diversa da quella che stanno vivendo. Ecco perché noi ci rechiamo nelle scuole: i giovanissimi devono crescere nella cultura del rispetto, imparando a tenere lontana ogni tipo di violenza. Tantissimi ragazzi dopo le nostre lezioni ci dicono grazie per avergli spiegato quanto sia necessario aprire il proprio cuore agli altri, raccontarsi, cercando di stare attenti e cogliere i primi sintomi di una relazione tossica».

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