mercoledì, 24 Aprile 2024

Sanità e violenza ostetrica, il dramma del bimbo di Valeria: “Nato sano finito in incubatrice pieno di ustioni”

"Marco è nato sano e bellissimo. Il giorno dopo l'ho ritrovato in un'incubatrice devastato da ustioni sul lato sinistro del corpo". Il dolore di una giovane madre che ha vissuto sulla propria pelle e su quella di suo figlio il dramma della violenza ostetrica e della malasanità neonatale, riflesso di quanto sul lavoro l'indifferenza, la superficialità e l'insipienza vadano spesso a braccetto.

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«Marco è la creatura più bella che abbia mai visto. Le ostetriche, gli unici angeli caduti dal cielo che mi hanno dato quella benedetta mano di cui avevo bisogno, lo poggiano su di me, me lo fanno toccare, baciare… mio figlio è sano e meraviglioso. Il giorno seguente, dopo ore di attesa, mi dicono di salire in neonatologia, c’è qualcosa che non va. Marco è a pancia in giù in incubatrice, pieno di ustioni sul lato sinistro del corpo, con ferite che si estendono dalla testa, alla schiena, a entrambe le gambe e i piedini. Mi cade il mondo addosso». Valeria (nome di fantasia) ha 26 anni e le va in frantumi la voce ogni volta che qualcuno le chiede come è stato il giorno della nascita di Marco, il suo primo parto, quello che ogni futura mamma si immagina come il momento in cui la voragine d’amore che si è levigata in nove mesi è pronta a essere colmata dal pianto liberatorio del figlio tanto atteso. Bastano pochi minuti di chiacchierata per essere sovrastati dal dolore di questa giovane madre che ha vissuto sulla propria pelle e su quella del suo piccolo il doppio dramma della violenza ostetrica e della malasanità neonatale, riflesso di come sul lavoro la mancanza di empatia, la superficialità e l’insipienza vadano sempre a braccetto.

Il travaglio e la nascita di Marco

«Marco è nato l’8 maggio 2022, cinque mesi fa. Ricordo come ieri quel giorno: è domenica, dopo quasi 40 settimane è arrivato il mio momento – Valeria, con gli occhi già lucidi, inizia a srotolare la sua storia -. Ho già trascorso più di 72 ore di travaglio a casa ma non riesco più a sopportare i dolori delle contrazioni. Allora quella mattina il mio compagno Giancarlo mi accompagna in ospedale, mi porta nella struttura più vicina, non è il caso di temporeggiare. Una volta giunti lì mi fanno il tampone, poi arriva un ginecologo molto bravo che mi visita e si complimenta con me per aver affrontato già più di metà del percorso a casa senza alcun problema. Il dolore diventa sempre più incalzante e vengo portata nella sala travaglio; qui, un’infermiera inizia a dirmi che c’è lei a monitorare le contrazioni e che posso fare degli esercizi con la palla per facilitare la dilatazione. Sento che il bimbo sta arrivando e mi sistemo sul lettino, così inizia il mio inferno. Le fitte mi spezzano, sudo, mi gira la testa e non riesco a capire in che posizione mettermi. Imploro l’infermiera di darmi una mano, una carezza, di aiutarmi in qualunque modo. Ho la mascherina in faccia, le finestre chiuse, nessuno accanto, non so che fare. La donna mi ammonisce, dice che non devo gridare, non devo respirare così, che sto sbagliando tutto. Io le chiedo ancora una volta gentilmente di aiutarmi a partorire, di spiegarmi cosa devo fare: è il mio primo parto, non so nulla. Poco dopo mi ordina di alzarmi dal letto, ma i dolori sono talmente forti che appena provo a sollevarmi sto malissimo e finisco per rimettermi stesa».

«L’infermiera si volta verso di me e grida: “Hai visto come sei testarda? Vuoi fare tutto di testa tua! Non mi vuoi ascoltare, ora chiamo la dottoressa e vediamo!“. Io resto impietrita, arriva la dottoressa e le dico che non ce la faccio più, vedo la stanza girarmi attorno, ho bisogno che mi facciano un’epidurale. Il medico dice di vedermi benissimo, con un colore roseo in viso e che posso continuare a spingere. Le ripeto: “Qualcuno mi può stringere la mano almeno?”, lei mi risponde un no secco, spiegandomi che non è assolutamente possibile causa Covid. A quel punto l’infermiera mi guarda e mi passa dei documenti da firmare per darmi l’ossitocina. Mi rifiuto categoricamente di farlo, sento che non ce n’è bisogno perché il mio bimbo sta arrivando e spiego che vorrei mi ricontrollasse la dottoressa; l’infermiera sbotta: “Il medico non può venire, si sta cambiando”. “Posso aspettare – rispondo – anche se è passata oltre mezz’ora da quando la dottoressa è andata a cambiarsi”. L’infermiera inviperita va allora a chiamarla e rientrano insieme nella mia stanza: “Dottoressa, la signora si sta lamentando perché secondo lei ci mette troppo tempo per cambiarsi“. Praticamente un dispetto che va a urtare ancora di più la mia sensibilità in quel delicato momento. Dopo 13 ore da incubo, alle 21 finalmente arrivano delle bravissime ostetriche che mi danno una grande carica: “Dai Valeria ci siamo! Vedo la testolina!”. Ho spinto con tutte le mie forze ed è nato Marco, sano e bellissimo. In quel momento la gioia di avere mio figlio con me ha preso il sopravvento, cancellando tutto il senso di abbandono e la frustrazione della giornata appena trascorsa».

“Poi il buio. Il bambino è in incubatrice pieno di ustioni”

La giovane madre respira, pensare ai lineamenti del suo Marco appena nato, alle sue manine, al suo profumo di pesca le dona un sorriso di un’altra dimensione. «Dopo qualche attimo lo lavano e lo portano in neonatologia. Da qui in poi il buio. Un’infermiera alle 23 mi chiede se volessi mio figlio in camera, io stremata le chiedo se gentilmente lo avrei potuto avere il giorno dopo. Lei mi guarda con aria di disprezzo, mi fa sentire sbagliata e va via. Appendo il fiocco nascita all’esterno della camera e mi addormento. Arriva il mattino seguente, tutte le mamme ricevono i loro pargoli tranne io, allora salgo nel reparto e chiedo tra quanto potrò vedere mio figlio: “Signora non si preoccupi, tra 20 minuti lo faremo scendere, lo stiamo lavando”. Torno giù e aspetto. Passano minuti, ore, fino a che un altro operatore non scende a chiamarmi, sento che qualcosa non va. Salgo in neonatologia e scorgo Marco a pancia in giù nell’incubatrice ricoperto da escoriazioni su tutto il lato sinistro del corpo e su entrambe le gambe e i piedini, con la cartilagine mancante sull’orecchio. Il bambino è posizionato con la schiena sollevata, pieno di abrasioni che i sanitari hanno cosparso di fitostimolina, un farmaco che serve ad acquietare le ustioni».

«Il primario di neonatologia mi dice: “Stiamo cercando di capire cosa possa essere accaduto, forse ha vomitato ed è rimasto mezz’ora nel suo stesso vomito. In famiglia ci sono persone con malattie dermatologiche? Potrebbe essere epidermolisi? Qualcuno che soffre di dermatite? Dobbiamo fare degli esami sulla pelle del bambino, abbiamo già fatto un prelievo del sangue e se riscontreremo delle infezioni andrà trasferito in terapia intensiva”. Resto scioccata, non riesco a dire una parola. Il medico mi dice di non toccarlo e io lo guardo piangendo dietro i vetri del reparto con la mascherina zuppa di lacrime. Torno nella mia stanza, arriva la sera e le infermiere vengono a visitarmi, allora chiedo ancora se posso andare a vedere mio figlio per il bacio della buonanotte: “No, il bambino è stato medicato e non può toccarlo, il latte lo stiamo dando noi. Questo non è l’orario per vederlo né salire in reparto».

La diagnosi di “dermatite”

«Passo la domenica a piangere, il lunedì salgo in neonatologia con il cellulare per scattare delle foto a Marco e mandarle al mio compagno a cui non era stato permesso di entrare perché non aveva fatto il tampone molecolare. Mio figlio è ancora lì in incubatrice, nella stessa identica posizione. Arriva il primario e mi comunica che gli esami sono a posto: “Ora bisogna capire perché si è formata questa cosa qua. Mi è venuto in mente che possa essere stato ustionato, magari la temperatura dell’acqua con cui è stato lavato, sono andato io stesso a controllare con un termometro… Ma noi abbiamo una valvola che non riscalda l’acqua oltre i 35 gradi, quindi mi sembra strano”. Io nel frattempo faccio delle foto al bambino e le giro a Giancarlo che inizia a chiedere pareri medici esterni e tutti, da pediatri a chirurghi neonatali, dinanzi a quelle immagini confermano si tratti di ustioni. Sulla vicenda in ospedale nessuno fiata. Dopo 3 giorni viene una dermatologa extra-ospedaliera a visitare il bambino, quando ormai le ulcere si sono rimarginate grazie alla fitostimolina: “Signora, niente ustione, è dermatite, metta olio di mandorle e antibiotico e vedrà che andrà via tutto”. Accetto l’ennesima bugia e faccio scrivere sulla cartella clinica la diagnosi».

I rimproveri del primario

«Nel frattempo mi chiama il primario di neonatologia e mi rimprovera di star facendo girare con il mio compagno le foto di mio figlio: “Questa è la cartella clinica, quando uscite dall’ospedale andate dove volete. Noi stiamo facendo tutti gli esami possibili e immaginabili per capire qual è il problema e qual è la fonte da cui è scaturito“, chiosa il medico. Quindi nemmeno lui è certo si tratti di dermatite, eppure lo hanno già messo nero su bianco. Non so che fare, temo che polemizzare o cercare di capire di più possa essere un errore, d’altronde il bambino è nelle loro mani, è affidato alle loro cure, non voglio che la situazione peggiori. Lascio il mio numero di telefono chiedendo alle infermiere di chiamarmi quando Marco si sveglia, magari per allattarlo. Niente. In quel reparto mi sento inutile. Decido di togliere il fiocco nascita appeso sulla porta della mia stanza, tanto nessuno può ammirare mio figlio, nemmeno il papà può vederlo nell’orario di visita».

Il rientro a casa e la depressione

Valeria è un fiume in piena, mi rivela gli strascichi psicofisici che l’hanno devastata dopo quel ricovero in ospedale. «Marco è stato allattato artificialmente dalle infermiere e quando siamo tornati a casa sono caduta in una profonda depressione post partum durata mesi. Il bambino non si attaccava al seno e io sentivo di non volerlo, perché mi domandavo continuamente come mai mio figlio mi rifiutasse. Mi sentivo in colpa per non averlo voluto tra le braccia la sera stessa, per essermi sentita stanca dopo i dolori del travaglio, era colpa mia se Marco non mi voleva. Ogni volta che vedevo il mio bambino piangevo, passavo intere giornate a casa, uscire mi faceva venire l’ansia. Non avevo nemmeno la lucidità di capire cosa stessi facendo, non c’ero con la testa, volevo stare da sola. Se avessi avuto probabilmente più gente vicino ne sarei uscita prima, soprattutto se mi fossi fatta seguire da un esperto. Ma in quel momento non riuscivo a rendermene conto».

“Non vorrei mai più avere figli”

Valeria si stringe nelle spalle, spiega che sta meglio ed è grazie all’aiuto del suo compagno se è riuscita a venir fuori da questo tunnel grigio che le ha incrinato l’anima. «Quel periodo non è ancora passato del tutto. Ora non piango più quando vedo il mio bambino, sto cercando di essere più forte, anche se la mia testa spesso torna sempre lì. Ciò che mi fa più male è vedere le mamme che allattano, mi demoralizza, perché io avrei tanto desiderato farlo. Dopo questa esperienza non vorrei mai più avere figli. Stiamo cercando pareri legali, ma molti ci hanno sconsigliato di agire penalmente, perché il bambino non ha fortunatamente lesioni permanenti. Marco ora sta benissimo, ha solo una cicatrice sull’orecchio che gli resterà per tutta la vita, dovuta alla mancanza di cartilagine; dobbiamo sperare che a livello neurologico non sia successo niente, ma questo potremo valutarlo nei prossimi anni».

Il post su Facebook

La 26enne nel mese di luglio ha deciso di raccontare la sua storia su Facebook, scatenando la commozione e la rabbia di migliaia di persone. Il post di Valeria è stato travolto da una valanga di commenti ed è letteralmente rimbalzato con oltre 10mila condivisioni su pagine e profili social. «Ho deciso di pubblicare sul mio profilo Facebook questa vicenda perché è giusto che chi ha sbagliato legga cosa ci ha fatto passare. Dopo il mio post ho ricevuto una marea di messaggi da tutta Italia, mi hanno contattato tantissimi genitori che hanno avuto esperienze dolorose simili alla nostra, se non più allucinanti. Le menzogne e l’omertà di tutto il personale sanitario mi hanno fatto molto male, per non parlare della violenza ostetrica subita prima del parto. Chi ci ha fatto tutto questo si metta una mano sulla coscienza e abbia il coraggio di dire la verità, di chiederci scusa per l’errore che ha commesso».

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