sabato, 27 Aprile 2024

“Il lavoro uccide. Quel giorno poteva toccare a mio padre”

"Gli incidenti sul lavoro non sono il prezzo della crescita o il frutto della decrescita economica, ma sono correlati alla legalità del lavoro", ha detto questa mattina il ministro del Lavoro Andrea Orlando.

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Quel giorno mio padre poteva morire, a causa del suo lavoro. La Costituzione Italiana “parla” chiaro: l’Art.4 riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro. Nonostante le leggi, non sempre, però, è garantita la sicurezza dei lavoratori. Se è vero che il lavoro nobilita l’uomo, egli diviene solo un numero, soprattutto quando si parla dell’interminabile lista degli incidenti sul luogo di lavoro.

“Gli incidenti sul lavoro non sono il prezzo della crescita o il frutto della decrescita economica, ma sono correlati alla legalità del lavoro”, ha detto questa mattina il ministro del Lavoro Andrea Orlando nel corso di un’audizione alla commissione di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia al Senato. Parole che in taluni casi servono a ben poco.

Si può essere a favore o meno delle dichiarazioni rilasciate da Orlando, ma la realtà è che dietro un incidente o la morte di un lavoratore ci sono le reazioni dei familiari alla notizia. Emozioni disparate che certamente non tengono conto di parole, numeri e statistiche.

Ventidue anni fa, la mia reazione è stata quella di una bambina di 8 anni: età in cui ho conosciuto per la prima volta la perfidia e la passività della morte.

Era un pomeriggio di primavera, quando mia nonna ha risposto ad una telefonata che ha cambiato, per sempre, il mio modo di vedere le cose: mio padre, manutentore ferroviario, a seguito di un incidente sul lavoro, aveva subito un gravissimo trauma cranico per il quale i medici dovettero indurlo in coma farmacologico e ricoverarlo in terapia intensiva. Ai bambini nessuno spiega cosa sia davvero la morte e la convinzione che pervade le menti dei più piccoli è quella che la nuova casa dei “volati via” sia il cielo.

Abile scacchista, la morte, muove le sue pedine a piacimento e senza mezze misure decide quando annunciare il fatidico “scacco matto”. Non lascia nulla al caso. Presenza costante e silenziosa, inerte, fissa coloro che sono in bilico tra questo mondo e quello a noi ancora sconosciuto. Quando, come e se far passare o meno quel confine è un suo diritto.

Quel giorno, all’improvviso, un silenzio quasi religioso è piombato in famiglia e le porte di casa, involontariamente, si sono spalancate alla sofferenza.

Sono passati 22 anni, ma quel momento è ancora vivido nella mia mente. Ricordo che, dall’angolino in cui stavo giocando con le mie bambole, non accennai un passo; inerme, rimanevo lì, con i miei 8 anni a guardare i volti dei miei nonni corrugarsi dal dolore.

Nessuno può comprendere a pieno quanto sia profondo e buio quel baratro in cui si precipita; se il corpo è inerme, la mente diventa un turbinio di domande: come, quando, se, ma e perché, alle quali spesso nessuno proferisce risposta.

Inevitabilmente i giorni passavano ed il telefono non aveva tregua. Ogni santo giorno, seduti sul divano, che un tempo era stato confessionale di mille gioie, fissavamo il telefono in attesa di una chiamata dall’ospedale; non tardava ad arrivare, al primo squillo gli occhi si spalancavano, il corpo sobbalzava e dei deboli lamenti fuoriuscivano dalle nostre labbra.

La verità è che quelle chiamate, della durata di qualche minuto, avrebbero potuto cambiare in meglio o in peggio la nostra esistenza. I medici non si sbilanciavano più di tanto e mio padre, inconsapevole di tutto, continuava a lottare tra la vita e la morte.

Pian piano, “accettammo” la condizione reversibile in cui versava mio padre, ma su di un punto i medici rimasero fermi: le sue reali condizioni neurologiche le avremmo conosciute solo nel momento in cui lo avrebbero risvegliato. Un risveglio tanto sperato, quanto agognato; ma sarebbe ritornato quello di prima? Nessuno era capace di dare una risposta a questa amara domanda.

La notte era il momento più penoso, nel silenzio, una sola chiamata avrebbe potuto annunciare la rinascita o la morte di mio padre.

Per tre interminabili mesi, con inerzia, la nostra vita proseguiva con la costante paura che la morte da un momento all’altro poteva battere il pugno sul tavolo e decidere le sorti di mio padre; essa, inevitabilmente, divenne una vera e propria compagna di vita. Non si è mai preparati a queste “batoste”, ma certo le armi migliori delle famiglie in attesa sono la coesione e la speranza.

Come un fulmine a ciel sereno, poi, una mattina i medici decisero di interrompere quell’inerzia e risvegliare mio padre. Per la nostra gioia, lui, era quello di un tempo.

La mia, in fondo, è una storia a lieto fine. La vita ha avuto la meglio e la morte si è scostata da noi. Non sempre, però, le storie degli incidenti sul lavoro si concludono così. Ed è a questo che tutti i lavoratori dovrebbero avere diritto: il lieto fine, alla fine di ogni sacrosanta giornata di lavoro.

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