martedì, 30 Aprile 2024

Giovani disoccupati col Reddito di cittadinanza, ristoranti senza personale: il paradosso del lavoro tutto italiano

Turni massacranti, stipendi bassi, lavoro nero. I giovani chiedono solo dignità, ma i piccoli imprenditori non riescono a pagarli: "Significherebbe lavorare in negativo".

Da non perdere

La polemica intorno al mondo della ristorazione non accenna ad arrestarsi. I social sono tornati a scaldarsi in seguito alle dichiarazioni rilasciate dallo chef Filippo La Mantia che, come altri prima di lui, ha lamentato difficoltà nel reperire personale. «Avrò fatto almeno 80 colloqui nelle ultime settimane, ma niente. I ragazzi non ne vogliono sapere» ha dichiarato La Mantia. Ad ogni modo, lo chef siciliano si è dimostrato più comprensivo e pacato di molti suoi colleghi. 

La polemica

Quello della ristorazione è un dramma che ha preso il via già con la riapertura post- pandemica, quando molti imprenditori denunciavano la carenza di personale. Nelle ultime settimane la questione è tornata al centro del dibattito con l’esporsi di molti nomi noti. Pare, infatti, che anche nel lucente mondo degli stellati non tiri una buona aria. Da Antonio Cannavacciuolo, che ha dovuto rimandare l’apertura del suo nuovo ristorante per la difficoltà a reperire personale, passando per Alessandro Borghese, che punta il dito contro i giovani che pretendono anche di essere pagati nonostante gli venga offerta l’opportunità di imparare, fino a Flavio Briatore che suggerisce di eliminare il reddito di cittadinanza per i più giovani. La problematica del settore esiste, non si tratta di una mera percezione. Lo conferma Fipe (Federazione Italiana Pubblici Esercizi), secondo cui sono 243 mila i posti di lavoro che la ristorazione avrebbe perso a seguito dello stop forzato dovuto al Covid 19. Il dato comprenderebbe le chiusure definitive di molti locali, ma anche la scelta compiuta da molti lavoratori di abbandonare un mestiere logorante e spesso mal retribuito, riversandosi su altre occupazioni. Altri, invece, sarebbero rimasti nello stesso campo, ma spostandosi su mercati esteri.

Le opinioni stellate e il reddito di cittadinanza 

L’analisi proposta dagli “arrivati” del settore sembra, però, non voler tenere conto di queste variabili. Tutti concordano sull’esistenza (e la gravità) del problema e tutti sembrano concordare anche sull’identità dei colpevoli: i giovani. Per Borghese questi «preferiscono tenersi stretto il fine settimana per divertirsi con gli amici. E quando decidono di provarci, lo fanno con l’arroganza di chi si sente arrivato. E la pretesa di ricevere compensi importanti. Da subito». «Lavorare per imparare non significa essere per forza pagati– continua lo chef- Io prestavo servizio sulle navi da crociera con “soli” vitto e alloggio riconosciuti. Stop. Mi andava bene così: l’opportunità valeva lo stipendio. Oggi ci sono ragazzetti senza arte né parte che di investire su se stessi non hanno la benché minima intenzione». A dargli man forte è subito intervenuto Briatore: «Io da giovane raccoglievo le mele per due soldi, e lo facevo con passione. Adesso l’obiettivo è opposto, non lavorare.» La soluzione? Eliminare il reddito di cittadinanza, ovviamente. Lo sostiene lo stesso Briatore, ma anche Viviana Varese, una stella Michelin al ristorante Viva di Milano: «Vediamo gente che ha bisogno di lavorare, ma non ha la voglia né l’umiltà per farlo. Proprio per questo sono fermamente convinta che si debba in qualche modo generare fame. Sì ad aiuti statali alle donne e agli over 40. No agli under 35. Ovvero a quella fascia di età, per quel che noto io, senza mordente, senza maturità, senza un obiettivo nella vita perché iper tutelata e accudita in famiglia. Non si tratta di voler punire, ma di cercare di creare una classe lavoratrice strutturata. Il lavoro c’è, bisogna solo avere fame. Se uno non l’ha dentro, allora la si induce».

La realtà dietro al bancone 

La proposta dei “big” consisterebbe, dunque, nell’affamare i giovani, eliminando i sussidi per riversare sul mercato una massa di disperati, vulnerabili e disposti ad accettare qualsiasi condizione. Qualcuno gli dà ragione. Per Rocco, 44 anni, quello nella ristorazione è un lavoro difficile, che non tutti possono fare. Comprende tante rinunce, molte ore di lavoro e sacrificare la propria vita privata. Lui lo sa bene, ci lavora da ben 31 anni. Ma per lui è giusto così, lo si deve fare in nome della passione. «Ho lavorato anche dalle 9 di mattina fino a mezzanotte, ma sono sempre stato pagato. Certo, non si viene pagati ad ora, sarebbe impossibile». Dei giovani dice che non accettano un carico lavorativo così pesante, soprattutto se possono stare in casa percependo il reddito di cittadinanza. D’altra parte per lui non si può sostenere questa vita se non si ama veramente ciò che si sta facendo. Se si è appassionati, ci si sacrifica.

Federico, invece, ha 25 anni e lavora come cameriere da sei. A lui il suo lavoro piace, ma racconta di un settore in cui vi è un diffuso sfruttamento, soprattutto nei mesi estivi, in lidi e località marittime. In queste realtà «gli orari di lavoro imposti sono spesso improponibili. Si parla di 12/13 ore al giorno pagate 50-60 euro, ad essere fortunati». Federico in parte comprende gli imprenditori: «Vengono soffocati dai costi imposti dallo Stato, tasse, iva… ma questo non deve andare a scapito dei lavoratori e non giustifica lo sfruttamento. Gestendo turni e orari si possono migliorare le prestazioni lavorative dei dipendenti ed anche il loro benessere. Una giusta retribuzione, poi, spingerebbe anche molti giovani a cui piace questo lavoro a fare sempre meglio.» In merito ai sacrifici, che molti ritengono parte integrante di questi mestieri, si chiede: «Quali dovrebbero essere questi sacrifici? Lavorare tutto il giorno e tutta la notte arrivando anche, in alcuni casi, a problemi di salute? Non credo sia giusto, non ci si dovrebbe sacrificare così. Dovremmo essere stimolati a fare sempre meglio, con stipendi regolari e luoghi di lavoro in cui regna il benessere e lo spirito di squadra. Non chiediamo altro che la normalità». 

Carlo di anni ne ha 29, di cui 5 spesi nella ristorazione, sempre nello stesso locale. Per lui il lavoro da cameriere è molto sottovalutato, anche dagli stessi datori di lavoro. Non si viene considerati dei professionisti e di conseguenza si è sottopagati. «Fare il cameriere non è semplicemente portare il piatto al cliente, noi siamo parte dell’immagine del locale. Un cameriere che riesce ad essere professionale ed allo stesso tempo è in grado di creare un certo feeling con la clientela, a farla affezionare, è un ottimo biglietto da visita e fa certamente aumentare gli incassi». Carlo ha iniziato da part-time per pagarsi gli studi, ma si è innamorato del suo lavoro, tanto da decidere di accantonare il percorso intrapreso in precedenza. Ad oggi questo è per lui il lavoro della vita: in quel locale e fra i suoi clienti ha trovato la sua felicità. «A noi giovani è stato insegnato che per sentirti felice e realizzato devi essere laureato, avere un lavoro importante. Seguendo questo stereotipo mi ero iscritto a Giurisprudenza, ma in questo percorso ho trovato la realtà più adatta a me. Quello che mi piace della ristorazione è che ti confronti con persone tendenzialmente felici: di fronte al cibo siamo tutti felici. Trovo che questo mestiere ti proietti in una realtà piena di allegria». In merito al dibattito sull’assenza di personale, con molta onestà Carlo ammette che se al se stesso appena ventenne fosse stato chiesto di scegliere tra un reddito di cittadinanza senza lavorare ed uno stipendio di poco superiore da guadagnare con molto lavoro, avrebbe forse fatto una scelta simile. «Penso, però, che nessuno sceglierebbe il reddito di cittadinanza a fronte di un buono stipendio, anche perché non si tratta di misure in grado di dare stabilità.» L’ambizione di Carlo è di diventare imprenditore del settore e, da buon imprenditore, ci fa riflettere anche sul fatto che il tanto discusso reddito di cittadinanza consente ai giovani di avere i soldi in tasca da poter spendere per le proprie esigenze, facendo di conseguenza guadagnare anche i locali. «Essendo vicino ai gestori del posto in cui lavoro mi rendo conto, d’altra parte, che i piccoli imprenditori affrontano non poche difficoltà. Spesso si guarda all’incasso e si pensa che si sia guadagnato tanto, in realtà le spese di gestione sono tantissime e molto elevate. Non è assolutamente una giustificazione allo sfruttamento del personale, ma ho avuto modo di testare con mano come spesso quando un datore di lavoro dice di non avere i soldi necessari a pagare stipendi più elevati non stia in realtà mentendo. A maggior ragione dopo due anni di pandemia, con una chiusura totale e poi una riapertura a regime dimezzato.»

Proprio delle difficoltà dei piccoli imprenditori ci ha parlato Simone, 42 anni, che gestisce una piccola attività da 22 anni. «A fronte degli introiti lordi di una piccola attività, rispettare la tassazione imposta dallo Stato, avere dipendenti totalmente regolari e ben retribuiti è pressoché impossibile per le piccole imprese. Significherebbe lavorare in negativo considerando quelli che sono gli incassi medi.» Per Simone questa difficoltà è data anche dall’elevato numero di attività presenti: «La liberalizzazione delle licenze ha fatto aumentare esponenzialmente il numero di locali. Se qualcuno apre un’attività simile alla tua a cento metri, è un dato di fatto che ci andrai a perdere. Prima vi era un numero limitato di attività, con tanti dipendenti ben retribuiti. Oggi siamo in tanti, la clientela si distribuisce fra tutti, così come gli incassi e questo impedisce di inquadrare realmente bene i propri dipendenti perché si hanno difficoltà ad andare avanti». La pandemia ha poi dato il colpo di grazia ad una situazione già traballante: «Siamo stati uno fra i settori più colpiti. I dipendenti che avevano un contratto spesso inferiore alla reale cifra percepita, hanno ricevuto una parte di quanto dichiarato in busta paga. Ma si trattava di cifre veramente basse, così molti si sono reinventati in settori meno colpiti, che non si sono mai fermati

Non è tutta colpa dei giovani

Anche sui social numerosi professionisti, in polemica con le dichiarazioni di chef ed imprenditori, hanno portato alla luce la realtà di un settore in cui sfruttamento e precarietà sono una prassi consolidata. Da nord a sud Italia, che si lavori in sala o in cucina, la situazione è sempre la medesima: turni massacranti, stipendi bassi, contratti part-time che nella pratica prevedono un numero di ore infinitamente superiore, lavoro nero e nessuna tutela. Eppure a nessuno viene in mente di riflettere su una strategia volta a migliorare le condizioni dei lavoratori, così da ridare dignità e valore a queste professioni. Guardando il quadro generale senza le lenti dell’interesse, quello che appare è che la responsabilità del declino del settore è effettivamente in parte dei giovani, che hanno una mentalità molto diversa dalle generazioni precedenti. Gli è stata insegnata la legalità, gli sono stati insegnati i propri diritti, di questi sono divenuti consapevoli e li reclamano. I giovani non sembrano meno appassionati, paiono però voler dare valore al proprio tempo, al proprio lavoro. Semplicemente non sono disposti ad accettare che si lucri sulla loro pelle, sulla loro dignità. Forse, come dicono alcuni, è stata la pandemia a dare il via a questa presa di coscienza, a questo nuovo modo di guardare alla propria vita ed al proprio tempo. A prescindere dalle motivazioni, però, è più che mai necessario chiederci che tipo di soluzioni vogliamo per il nostro paese. Affamare la classe lavoratrice per costringerla allo sfruttamento non dovrebbe essere una scelta praticabile. D’altra parte, però, le difficoltà delle piccole attività, l’elevata tassazione che opprime i piccoli imprenditori, spesso impediscono a questi ultimi di garantire retribuzioni dignitose. A ben guardare, il problema sembra molto più complesso del semplice reddito di cittadinanza. Si dovrebbe, forse, ripensare dalle fondamenta un settore in cui si parla tanto di “vocazione” ma nei fatti si pratica spesso lo sfruttamento. La ristorazione ha bisogno di essere rivalutata, di ripartire – dopo ben due anni di fermo – migliore di prima. Per farlo serve un progetto serio, che i nomi più importanti dovrebbero essere i primi a richiedere a gran voce, in virtù del millantato amore per la propria professione.

Ultime notizie