venerdì, 29 Marzo 2024

Sanadaj, le piazze gremite di giovani iraniani: non si placano le manifestazioni. I video sulla rete.

La fonte attendibile delle azioni dei protestanti è la BBC Persian, che nei servizi commenta come l’esperienza abbia reso i manifestanti più accorti e prudenti nel girare video che non inquadrino volti, perché ormai è chiaro da tutta la cronaca recente, che anche un piccolo frame potrebbe contribuire all’identificazione delle persone coinvolte da parte della polizia morale.

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A Sanadaj, capoluogo della provincia iraniana del Kurdistan, situato nella zona occidentale del paese a maggioranza curda e a Qorveh, 93 km a est di Sanandaj, nuove manifestazioni vengono riprese e pubblicate in rete, a quaranta giorni dall’esecuzione di due ragazzi, dimostranti in prima linea, Mohammad Mahdi Karmi e Mohammad Hosseini. I video pubblicati sui social hanno testimoniato le proteste di ieri sera e nella notte anche Teheran, Arak, Isfahan, Izeh nella provincia di Khuzestan e Karaj. I dimostranti hanno urlato slogan contro il leader della repubblica islamica, Ali khamenei. Dopo una piccola pausa la manifestazioni sono tornate ad infiammare le piazze.

BBC Persian sta documentando le manifestazioni ed è la fonte più attendibile, nei servizi commenta come l’esperienza drammatica del Paese in merito alle sollevazioni popolari, abbia reso i manifestanti più accorti e prudenti nel girare video che non inquadrino volti, perché ormai è chiaro che anche un piccolo frame potrebbe contribuire all’identificazione delle persone coinvolte da parte della polizia morale.

Non va sottovalutato l’immenso ruolo giocato da internet e dai social nella causa, soprattutto nella diffusione delle mobilitazioni grazie ai numerosi video che circolano online e che mostrano i moti di rivolta, le violenze della polizia, e le scene di donne che bruciano l’hijab, se lo tolgono dal capo o si tagliano ciocche di capelli – sono sempre di meno infatti le donne che lo indossano.

L’hashtag #MahsaAmini continua a essere tra i più visualizzati. La rete è il mezzo che ha permesso una diffusione ampia e rapida del movimento in tutto il paese, così le notizie in tempo reale di quanto stava accadendo inizialmente solo in Kurdistan e a Teheran sono circolate ovunque, ed è con il passa parola le persone vengono a conoscenza dei raduni e si organizzano per scendere nelle piazze.

Non è casuale dunque che, dallo scoppio delle proteste (cioè dalla morte della giovane studentessa curda Masha Amini lo scorso settembre) le autorità iraniane abbiano interrotto l’accesso a internet in tutto il paese, frequentemente e in maniera discontinua. Perché? L’Iran è firmatario  del Trattato ONU sui diritti politici e civili, in cui si ribadisce chiaramente come il blocco all’accesso ad internet violi il diritto di libertà di espressione e all’accesso libero alle informazioni. Un diritto che, soprattutto gli Europei, danno per assodato se non addirittura scontato.  In base alla legge dunque, la Repubblica Islamica ha l’obbligo di garantire che ogni restrizione alla rete sia motivata da ragioni di sicurezza, e che in nessun caso sia totale o si protragga per molto tempo.

Nonostante queste premesse e tutele sovranazionali, a partire dal 21 settembre per ordine del Consiglio di sicurezza nazionale iraniano, sono state bloccate diverse applicazioni di messaggistica e social media, fra cui WhatsApp e Instagram. Altri, come Twitter e Facebook, sono invece ufficialmente vietate nel paese dal 2009 (nonostante alcuni esponenti politici iraniani possiedano un account e abbiano condiviso i propri tweet regolarmente). Le autorità hanno fatto sapere che le restrizioni rimarranno in vigore fino a quando l’ordine verrà ristabilito. Secondo quanto affermato da Human Rights Watch, negli ultimi quattro anni le autorità iraniane hanno spesso utilizzato lo strumento della censura della rete (parziale o totale) per cercare di limitare la diffusione di proteste e manifestazioni di piazza. Le proteste continuano strenuamente e le fuoriuscite multimediali sono molte, e come hanno sottolineato le reti di informazioni in Oriente, sono sempre meno un vantaggio o una prova per la polizia morale iraniana grazie ai tagli e all’oscuramento dei volti nei video.

dati fonte:ISPI
studio pubblicato da Istituto per gli studi di politica internazionale

Le manifestazioni si sono diffuse a macchia d’olio in tutto il paese per mesi e stanno coinvolgendo ampie fette della popolazione a prescindere dall’età, dal genere e dall’appartenenza sociale, continuando nonostante la sanguinosa repressione e il controllo di internet da parte delle autorità iraniane. I disordini e i raduni, inizialmente motivati dalla morte di Amini, hanno dato voce a un più ampio dissenso rivolto interamente contro la Repubblica islamica e la Guida Suprema Ali Khamenei che ricordiamo, è arrivato a condannare a morte manifestanti per reato di “moharebeh” (inimicizia contro dio).

Per Iran Human Rights, le confessioni delle vittime sarebbero state sempre estorte con metodi coercitivi; inoltre, la mancanza in Iran di una reale separazione fra potere esecutivo, legislativo e giudiziario, farebbe sì che i tribunali agiscano sotto l’influenza diretta delle forze di sicurezza e del Leader Supremo Khamenei. Si teme inoltre che queste siano solo le prime di una lunga serie di condanne: fin ora, infatti, è di 17 il numero di manifestanti su cui pende la pena capitale. Anche secondo Human Rights Activists News Agency, organizzazione che promuove la difesa dei diritti umani in Iran, finora sarebbero 528 i morti fra i manifestanti – di cui 71 bambini- mentre più di 19 mila sarebbero stati arrestati.

Attendendo ulteriori sviluppi, è bene ricordare che il dissenso, grazie anche all’impatto mediatico avuto,  ha presto varcato i confini dell’Iran, tanto che manifestazioni di solidarietà vengono organizzate in tutto il mondo. A fine ottobre, 80mila persone sono scese in strada a Berlino per chiedere l’inasprimento delle sanzioni internazionali contro il regime iraniano e scandendo lo slogan “donne, vita e libertà”. Oppure a Lione, in Francia, considerata la città più vicina alla causa curda, tanto da essere definita dai giornali francesi, la capitale europea della protesta: un migliaio le persone che qualche settimana fa hanno sfilato per uno studente iraniano di storia che si è tolto la vita per protestare contro la repressione nel suo Paese. Organizzata da un collettivo che ha ripreso il nome da quello del movimento di contestazione iraniano, “Donna, vita, libertà”, la mobilitazione ha riunito esponenti della diaspora arrivati anche da Parigi, Tolosa e altre città francesi.

La rabbia contro il sistema politico e sociale e il desiderio di riscatto dei protestanti non si spegne, anche grazie al consenso da parte dell’Europa, anche se un senso di sfiducia già da tempo sta colpendo le fasce di più deboli della popolazione, profondamente toccate dalle pessime condizioni in cui versa l’economia iraniana al momento.

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