sabato, 20 Aprile 2024

Servizi sociali, la battaglia di Liliana: “Volevano strapparci figlia e nipote. Dietro gli affidi c’è spesso business”

Liliana Zecchinato ci ha raccontato della feroce lotta giudiziaria, portata avanti assieme al suo compagno nel 2014, quando i servizi sociali hanno tentato di strappar loro la figlia 16enne e la sua bimba appena nata, con l'accusa di incuranza. Un dramma diventato il libro "La vittoria del cuore", da cui emerge un sistema contorto, fatto di allontanamenti frettolosi, affidi e isolamenti in comunità.

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Il dolore di quando ti portano via un figlio è atroce e c’è chi lo sa bene. È il 2014, Lara ha 16 anni, vive in un paesino del Torinese, stretta in un’adolescenza di periferia, piena di ambizioni e paure a cui sua madre Giglio e il suo patrigno Stefano cercano di prestare ascolto. Lara ha solo 16 anni e resta incinta, trema, si incupisce. All’inizio non lo racconta a nessuno, teme che la sua mamma possa sentirsi delusa, che quel pancione possa essere un problema, che quel bimbo possa demolirle il futuro. Aspetta qualche settimana, salta i primi controlli ginecologici, poi tira un sospiro lunghissimo e si riempie i polmoni di coraggio: nessuna interruzione di gravidanza, Lara quel figlio lo vuole e decide di raccontare tutto ai suoi genitori. Giglio e Stefano da quel momento le donano un amore ancora più sconsiderato, in grado di far fiorire la loro piccola donna e la nuova vita che porta in grembo.

Eppure l’idillio si incrina proprio nel momento in cui tutto sembra sia tornato al proprio posto: arrivano i servizi sociali, un’assistente e un’educatrice, e iniziano a insospettirsi di quelle prime ecografie mancate, accusando quella famiglia di incuranza nei confronti di Lara, di non essere adatti a seguire la giovane gravida in quel percorso né il futuro nato. Da allora il buio, Giglio e Stefano affrontano un anno di battaglie legali terminato con la nascita della nipotina, in cui combattono con il coltello tra i denti perché la figlia e la neonata non vengano loro strappate da un sistema contorto, fatto di allontanamenti di minori frettolosi, affidi ingiusti e isolamenti in comunità. Giglio, Stefano e Lara sono i nomi di fantasia usati nello struggente romanzo autobiografico “La vittoria del cuore” di Liliana Zecchinato, Pav Edizioni, gli unici elementi frutto di invenzione in questa singolare e purtroppo reale storia. Nel libro viene sviscerata ogni fase della vicenda umana e giudiziaria che ha stravolto l’esistenza dell’autrice, mamma e nonna del racconto, e dei suoi familiari.

“Ho scritto questo libro per aiutare le famiglie che si sono trovate o si trovano a fronteggiare per motivi sconosciuti e senza alcuna ragione i servizi sociali – afferma la scrittrice -. Credo si parli in maniera piuttosto superficiale di queste storie di abuso e che sia, invece, necessario dare un messaggio forte di speranza a tutti quei genitori che stanno attraversando un dramma del genere, finiti in un vortice di ingiustizie. Voglio dire loro che lottando legalmente – senza fare colpi di testa che ti fanno passare dalla parte del torto – e non mollando mai, qualcosa si ottiene sempre. Certo è che noi siamo siamo stati un caso più unico che raro”. La rabbia di Liliana per quanto hanno dovuto patire si avverte ancora nelle vibrazioni della sua voce.

La scrittrice ricorda come fosse ieri gli albori di questo dramma, quel giorno in cui gli assistenti sociali hanno costretto sua figlia incinta, con le gambe e i piedi gonfi come zampogne ad andare a piedi in pieno inverno da loro tutti i giorni per sottoporsi a delle consulenze tecniche. “Addirittura le davano appuntamento a mezzogiorno per poi scrivere nella relazione che la ragazza aveva fame perché non le davamo da mangiare – spiega Liliana -. Scrivevano ciò che volevano, che mia figlia si era lamentata, dicendo che non si nutriva perché non c’erano soldi. Io le loro relazioni allucinanti le ho ancora tutte. Poi una di queste streghe ha sottoposto mio marito a Ctu e ha dichiarato che lui al momento della consulenza puzzava di vino. Bugie su bugie. Ci siamo opposti a quelle relazioni e sporto molte denunce, poi sparite. Però tutte queste nostre azioni legali hanno dato modo di capire che non ci saremmo fermati davanti a nulla e così è stato”.

Il parto e l’allontanamento di minore

Per Liliana tornare a parlare di quel periodo significa infliggere nuovi tagli a una ferita ancora viva. “Il peggio è avvenuto quando è nata mia nipote – prosegue con foga -, proprio in ospedale. Lì mia figlia è stata trattata malissimo, non posso dire non accudita, ma seguita il minimo indispensabile. Tutti la guardavano malissimo, facendola sentire un’emarginata, come se avesse colpa di qualcosa; noi cercavamo di stare con lei il più possibile, proprio per evitare che si sentisse isolata. Questo assurdo comportamento del personale sanitario era dovuto al fatto che sapevano già che c’erano i servizi sociali dietro e che la bimba sarebbe stata portata via. Alle altre partorienti era permesso stare vicino ai loro bimbi e i loro parenti potevano entrare ad assisterle, a noi invece non è stato permesso nulla. Per non parlare del fatto che avevamo sempre la Polizia e i vigilanti alle calcagna, ci piantonavano continuamente. Dopo il parto io non sono stata neanche avvisata, mia figlia era sotto anestesia che piangeva in camera e solo la compagna di stanza ha avuto il buon cuore di venirmi a chiamare, per dirmi che la ragazza aveva bisogno di me. Neanche in quel caso mi volevano far entrare, è dovuto intervenire mio marito per darmi modo di sgattaiolare ed entrare nel reparto”.

Solo 16 anni, buttata in un letto d’ospedale dopo un cesareo, senza potersi alzare, una neomamma a cui non veniva concessa nemmeno la possibilità di essere abbracciata da sua madre. “Non le dico cosa ho dovuto fare per poter vedere mia nipote – sussulta Liliana -, è stato in quel momento che ho capito che volevano togliercela a tutti i costi. Ho dovuto insistere per ore… Ma non è finita qui, perché lo stesso giorno del parto le operatrici sociali sono andate in ospedale per minacciare mia figlia, approfittando del fatto che io stessi tornando a casa dopo averla assistita per tutta la notte, dicendole che se non le avesse seguite al momento delle dimissioni non avrebbe più visto la sua piccola. Fortunatamente la giovane che era nella sua stessa stanza mi ha immediatamente chiamato e sono tornata lì per discutere con loro. Tra l’altro io in sede di processo non ho mai visto un decreto che mi imponesse di stare lontana da mia figlia e mia nipote, quindi quella stretta sorveglianza non è stata mai giustificata dal punto di vista legale. E se questo decreto c’era, non ci è mai stato mostrato. Come l’insabbiamento delle tre querele che abbiamo fatto, non si è più saputo nulla né in positivo né in negativo”. La bimba è stata trattenuta per 16 lunghissimi giorni in ospedale, di cui quasi cinque insieme alla mamma, ma i restanti da sola.

La battaglia mediatica e giudiziaria

Liliana non trova pace al pensiero che la sua giovane donna dopo aver appena partorito è stata costretta a prendere in quel periodo ben sei volte al giorno due pullman per recarsi in nosocomio ad allattare la piccolina. I nodi di questo dramma hanno cominciato a sciogliersi solo quando la famiglia è riuscita a scuotere la polvere sotto il tappeto, rendendo noto l’incubo in cui erano piombati mediante alcuni articoli di giornale. “Credo che parlare pubblicamente dell’ingiustizia che stavamo subendo, senza nasconderci, chiamando in causa questi personaggi destabilizzandoli, seppur senza fare nomi, ha fatto un buon 70% della riuscita del processo. Poi abbiamo anche cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica attraverso i social media. Infatti tramite una rete di amici su Facebook abbiamo inondato di email di protesta sia la posta elettronica del Comune dove risiedevamo all’epoca dei fatti, che quella dei servizi sociali – continua Liliana -. Il tutto è andato avanti per giorni, le nostre lettere hanno creato subbuglio, disturbando non poco il loro lavoro e così non hanno potuto far altro che ascoltarci! Sono convinta infatti che se siamo riusciti a vincere la causa e a non permettere che ci venissero strappate figlia e nipote è stato proprio grazie a quelle azioni pubbliche”.

La loro lotta giudiziaria è durata un anno e si è risolta con successo soprattutto grazie alla tenacia di questi genitori, che in sede di processo hanno avviato l’iter per l’adottabilità della nipotina, anche contro il parere del loro avvocato. “Sono arrivata con tutte le prove in mano e ho mostrato al magistrato la cartella con tutti i referti degli esami fatti fare a mia figlia durante la gravidanza – afferma Liliana -, proprio chiedendo se fosse ancora giusto dinanzi all’evidenza accusarci di negligenza o incuria. E lì, la Corte ha dovuto fare marcia indietro. Dopo due decreti il terzo ha finalmente dichiarato che la situazione non era così grave come era apparsa inizialmente e quindi la bimba è tornata con noi. I servizi sociali dopo la sentenza hanno poi continuato a monitorarci per un po’ di tempo, ma ormai eravamo riusciti a ottenere altri assistenti dal Tribunale. Quando hanno iniziato a seguirci i nuovi operatori siamo riusciti a riavere la nostra piccola e le cose pian piano si sono ristabilite”.

Un sistema sociale e umano da rivedere

Questa triste storia a lieto fine ha reso Liliana e la sua famiglia “un po’ più cattivi“, li ha spinti ad andare oltre le apparenze, osservando bene ogni individuo che gira intorno a loro con più diffidenza. “Mia nipote ora ha 8 anni, è una bambina felice ed era fortunatamente troppo piccola per accusare i colpi di quell’ingiustizia. Mia figlia ha 25 anni, è una ragazza forte, da molte risorse, che è riuscita a rimboccarsi le maniche e ritrovare la serenità quando ha capito che avrebbe tenuto con sé la sua creatura. Ci siamo lasciati alle spalle quel periodo negativissimo che abbiamo vissuto con l’angoscia nell’anima, ma è un trauma che difficilmente riusciremo a scrollarci di dosso“.

Tuttavia quel dolore non ha annebbiato la lucidità di Liliana che sottolinea quanto sia importante nella vita non generalizzare, individuando e denunciando sempre il singolo reo di abusi di potere e non la classe professionale a cui appartiene. “Ho conosciuto anche delle bravissime assistenti sociali, sarebbe ingiusto colpevolizzare un’intera categoria. Però resta il fatto che credo ci sia una parte del meccanismo da rivedere, perché è indubbio che dietro questi figli strappati ci sia un business. Si sa benissimo che per ogni bimbo allontanato dalla sua famiglia d’origine c’è sempre qualcuno che ci guadagna, non prendiamoci in giro. Forse ciò che dovrebbe cambiare è proprio il modo di porsi e di operare dei servizi sociali, quindi anche dello psicologo, della Ctu… – avverte la scrittrice -. Per non parlare del fatto che anche il sistema di spedire in comunità le donne vittime di qualcosa o le ragazze madri con i loro bambini finisca per isolarle, facendole sentire un problema per la società”.

“Penso che nel momento in cui non ci sia una rete familiare alle spalle che supporta queste giovani tutto ciò può anche essere una soluzione, ma quando invece c’è una famiglia disposta a stare insieme alla ragazza e al suo bambino, in grado di aiutarli in quel percorso, non ha senso separarli. Poi la Costituzione dice che i minori andrebbero tolti solo in casi di abusi e violenze, invece qui diventa tutto un caso: se il bambino ha problemi di attenzione, se è troppo vivace o estremamente taciturno, insomma, basta anche solo una sciocchezza davvero minima per trovarsi in queste situazioni. Spero che la mia ‘vittoria del cuore’ riesca a far capire a quella parte marcia dei servizi sociali che urge umanità, che non ci si può limitare a seguire protocolli, finendo per fare il buono e cattivo tempo a proprio piacimento: i genitori e ancora di più i bambini vanno ascoltati davvero e non analizzati con superficialità o pregiudizio, si tratta di persone e i loro diritti vanno sempre tutelati”.

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