martedì, 19 Marzo 2024

Bologna, il mondo segreto del Parkour: report di un grande raduno

Sabato 18 marzo Bologna ha ospitato il più grande raduno di parkour d'Italia. Hanno partecipato centinaia di atleti non solo da tutto il Paese, ma anche dalla Germania, Inghilterra e Australia.

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Il 18 marzo sarebbe dovuto essere un sabato come tanti altri, stiracchiato tra qualche ora di straordinario e la classica “uscita sociale” al bar con gli amici. Era da poco passata l’ora di pranzo ed ero in drastico ritardo sulla mia tabella di marcia. Stavo correndo verso la fermata del bus davanti al Bolognafiere, quando ho notato delle persone camminare sulla cima della piramide monumentale al centro della piazza. Mentre uno di questi lassù eseguiva un salto mortale all’indietro -come se nulla fosse- i miei piedi naturalmente mi stavano già portando lì.

Mi sono ritrovata in mezzo ad uno dei più grandi raduni di Parkour d’Italia. Non c’era muretto, rampa di scale o barriera architettonica su cui gruppi di atleti non si stessero sfidando in movimenti mozzafiato. “Doveva essere inizialmente un raduno italiano, sì, esteso nazionalmente, ma non così tanto. E invece il supporto che abbiamo avuto è stato inaspettato.” Mi ha raccontato Lorenzo d’Albertas, uno degli organizzatori dell’evento. Lui per primo era stupito dalle centinaia di persone da tutta Europa (e non solo) che hanno partecipato. “L’evento è stato condiviso molto sui social ed eccoci qua, è pieno di inglesi, praghesi, australiani, tedeschi… Un sacco di gente.

Lorenzo mi ha spiegato che in Italia non si parla molto del Parkour. Lo conosce chi lo pratica, ma è raro che raggiunga chi non se ne interessa. Gli atleti stessi evitano di farsi grandi pubblicità con chi “sta in alto”. Capita spesso infatti che i raduni vengano sgomberati dall’arrivo della polizia. “In passato succedeva di più perché ci vedevano come dei vandali, come gente che si allena per fare i ladri e scappare dalla polizia. C’era molta ignoranza“, continua. Il parkour dopotutto è uno sport simile alla ginnastica artistica, svolto però all’esterno. Vengono chiamati “spot” gli ostacoli, i muretti e le barriere architettoniche di ogni genere su cui gli atleti possono saltare. “Il nostro obiettivo è trovare posti sempre nuovi e “sbloccare” sempre più movimenti“, conclude Lorenzo.

E’ stato affascinante scoprire quante diverse evoluzioni gli atleti siano capaci di immaginare (e di fare) su uno stesso spot. E’ un tipo diverso di street art, uno dei mille modi capaci di valorizzare un groviglio urbano soffocato da troppo cemento. La loro presenza è momentanea: un salto dura solo poche frazioni di secondo. Ho visto un ragazzo compiere delle manovre aeree incredibili, impossibili da descrivere, e atterrare sui mattoni senza il minimo rumore. Leggero come un gatto. Eppure per loro questo raduno non è stato altro che “un gruppo di ragazzi che si incontrano, si allenano e si divertono. E’ quello che facciamo sempre“.

L’evento è stato organizzato dai Pastamoves, un gruppo di atleti italiani molto famoso all’interno della community del parkour. Giacomo Regazzi, membro del gruppo come Lorenzo, mi ha rivelato che fino a tre anni fa non erano molto conosciuti. Poi “abbiamo postato su instagram il video dove uno di noi ha fatto un salto che nessuno al mondo aveva mai fatto. Siamo diventati virali con milioni di visualizzazioni e migliaia di followers”. Nel commentare le centinaia di persone presenti al raduno, Giacomo ha sottolineato che non erano lì per la fama o la notorietà dei Pastamoves.

Mi ha raccontato che hanno girato tantissimi posti, dentro e fuori Italia, conoscendo e diventando amici di altrettanti atleti formidabili da tutto il mondo. Il parkour si basa sull’aspetto comunitario dello sport, che va al di là della competizione e del denaro. L’unica sfida da superare è quella con sé stessi, con il proprio corpo e con le proprie paure. E’ un’arte nomade, di condivisione e di crescita. C’è sempre un posto nuovo dove allenarsi, un movimento da imparare e nuove persone con cui confrontarsi.

Al centro della piazza erano radunati tutti gli zaini e le borse dei partecipanti. Nessuno li controllava o sembrava preoccupato all’idea di lasciare telefoni e portafogli incustoditi. Anzi, gli stessi atleti mi hanno spiegato che “siamo tutti sulla stessa barca. Non ha senso causare un disagio -rubare- che potrebbe capitare a noi“. Allo stesso modo ho visto una grande attenzione per la pulizia. A turno i ragazzi di Pastamoves giravano con megafono e sacco della spazzatura per raccogliere le cartacce e insultare amichevolmente chi le aveva gettate. “Ci dobbiamo allenare noi qui, se è sporco fa schifo. Sono le basi“.

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