In un’intervista a “La Verità” il direttore dell’istituto Spallanzani di Roma, Francesco Vaia, ha spiegato le ragioni per cui, ciò che dovremmo migliorare della nostra sanità pubblica dopo l’esperienza della pandemia, si può riassumere mettendo assieme le seguenti parole: assistenza medica domiciliare. L’immagine del medico che entra in casa del paziente con la valigetta di cuoio marrone per alcuni non è mai stata realtà, difatti soprattutto dopo la diffusione del Covid-19 l’assistenza sanitaria si è spostata completamente in ospedale. È questo il punto che Vaia analizza, sostenendo che “se riuscissimo ad attuare un reale potenziamento della domiciliarità, istituendo ed enfatizzando il ruolo del nuovo operatore sanitario del territorio, non avremmo più motivo di parlare di ospedali sotto pressione”.
La prova che sia possibile una diversa gestione proviene proprio dallo Spallanzani. Infatti da diverse settimane il paziente in cura “ha più un identikit da ambulatoriale che da reparto”. Dal nuovo modus operandi, si segue un iter diverso per tamponi (o “tamponificio” come Vaia stesso definisce), quarantena e isolamento, “da rivedere” secondo Vaia, che infatti spiega quanto siano controproducenti i bollettini quotidiani in termini di disorientamento e panico che possono suscitare nei cittadini. Infine propone di seguire il modello statunitense per cui ai contagiati asintomatici è permesso interrompere l’isolamento dopo cinque giorni anche in assenza di test.