martedì, 16 Aprile 2024

Da Cuba all’Italia per la libertà, 4 ragazzi in fuga: “Torturati nelle carceri dell’Ucraina in guerra” – VIDEO

La storia di quattro ragazzi fuggiti da Cuba un anno fa, perché minacciati da un regime che non ammette il pensiero differente; la storia di chi è arrivato in Italia correndo tra confini e guerre che non gli appartengono. Un'odissea per la libertà che va oltre ogni occidentale immaginazione e non può scadere nell'ingranaggio di meschini giochi del silenzio.

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Yosiel, Luis Miguel, Luis Alberto e Jose Antonio mi scrutano, hanno le rughe d’espressione segnate da una struggente odissea per la libertà, le gambe zuppe, ancora paralizzate nelle valanghe di neve del Donbass. Nei loro occhi leggo la storia di quattro ragazzi fuggiti da Cuba più di un anno fa e arrivati a Bolzano nelle scorse settimane, dopo aver percorso con la paura addosso e le suole divorate un impensabile numero di chilometri, sempre in bilico tra confini e guerre che non appartenevano loro. Perché lottare per essere liberi non è solo il titolo di anacronistici paragrafi sulle rivoluzioni che dominano le pagine dei nostri polverosi sussidiari, è il motivo per cui ancora oggi, nel terzo millennio, in questo buio 2022, ci sono ancora degli Ulisse che scelgono di lasciare la patria, gli affetti, i colori e gli odori della loro casa, per respirare e poter gridare a squarciagola ciò che pensano e cosa vorrebbero per il proprio futuro di cittadini, a costo di quel respiro, a costo di costruirsi quel domani altrove. E lo so che adesso qualcuno starà storcendo il naso e forse non vedrà l’ora di scrollare la pagina per tornare a studiare il tutorial su come cuocere a puntino il cous cous, ma questo è un viaggio della speranza che va oltre ogni occidentale immaginazione e non può subire limature o scadere nell’ingranaggio di meschini giochi del silenzio.

Yosiel ha 35 anni e parla con la fretta di chi intravede nella notte la fuga e non di certo il sogno: “Ho deciso di lasciare Cuba perché avevo cominciato a pensare in modo differente rispetto al regime; una volta nel mio centro lavorativo ho fatto un commento sul Presidente cubano, ho chiesto perché andasse solo nelle zone belle del Paese, in cui tutto funzionava, evitando di far visita ai contadini e di recarsi nei luoghi dove le cose invece filavano male. Per questo motivo ho ricevuto una sanzione al lavoro, fino a quando non sono stato licenziato per come la pensavo e per aver detto la verità sul sistema. Da quel momento ho cominciato a manifestare il mio dissenso, sono stato con Jose Antonio a una manifestazione di fronte all’Ambasciata del Nicaragua all’Avana e, così, la Polizia politica ha cominciato a chiamarci in Caserma, dove ci hanno detenuto in diverse occasioni. Nel momento in cui inizi a pensare in modo differente in un Paese in cui non si può pensare differente, dove ti viene imposto il pensiero, cominci a essere un problema per la sicurezza di Stato. È quello che è accaduto a noi…”.

Tutto ciò è successo prima o dopo le proteste di massa dell’11 luglio 2021 contro il Governo cubano?
“L’11 Luglio non siamo riusciti a manifestare perché ancora prima di poter arrivare in piazza siamo stati arrestati, in quanto eravamo già segnalati e perseguitati dal regime; siamo stati liberati quando le proteste sono finite. In quel momento ero senza lavoro, la mia casa era sotto sorveglianza e ho deciso di scappare da Cuba e volare in Russia. Come tutti sanno, si tratta di un altro Paese sotto dittatura, in cui vi è un regime comunista come quello cubano, ma dove per noi cittadini cubani è più facile emigrare perché non ci viene richiesto il visto. Il 25 agosto 2021 ho lasciato la mia patria con l’obiettivo di approdare in uno Stato dell’Unione europea per chiedere asilo politico. La storia è cominciata così, sono il primo tra noi che è arrivato in terra russa, mentre aspettavo che arrivassero gli altri del gruppo, tutti provenienti come me dalla provincia di Pinar del Rio”.

E poi, cosa è successo?
“Lì ho iniziato a lavorare fino a che non sono arrivati Jose Alberto e Jose Antonio, dopo di che insieme abbiamo deciso di partire, perché restare in Russia significava scappare da una dittatura per ritrovarsi in un’altra. Avevamo valutato di passare il confine bielorusso, ma non lo abbiamo fatto perché anche la Bielorussia è comunista… Allora abbiamo deciso di passare attraverso l’Ucraina e il 5 gennaio 2022 abbiamo attraversato la frontiera. Ci siamo arrivati valicando monti e campagne, avevamo un freddo che ci fermava il sangue e per questo ci siamo rifugiati in una stazione per autobus, dove poi siamo stati arrestati”.

Jose Antonio ha 37 anni, trova la forza nelle pause e cerca di colmare i respiri di Yosiel: “Sì, abbiamo cercato di raggiungere l’Ucraina usando treni e taxi, mentre l’ultimo pezzo di strada l’abbiamo fatto a piedi, moltissimi chilometri a piedi nella neve, finché siamo riusciti ad attraversare la frontiera tra Russia e Ucraina, una delle frontiere più vigilate che ci sia. Come dice Yosiel, ci hanno fermato a otto chilometri dal confine in un luogo chiamato Harkov. Lì è cominciato il nostro passaggio in terra ucraina: ci hanno sottoposto a due processi, nel primo hanno condannato ognuno di noi a pagare una multa di 400 dollari per aver attraversato la frontiera illegalmente. In entrambe le cause non avevamo un avvocato e nella seconda abbiamo chiesto espressamente asilo politico; purtroppo non sapevamo la lingua e i traduttori ci hanno ingannato, non traducendo la nostra richiesta. Ci dicevano che stava andando tutto bene, di stare tranquilli, ma stavano mentendo. Siamo stati arrestati il 25 gennaio e rinchiusi in centri per migranti per cinque mesi, da quel momento abbiamo “visitato” cinque prigioni… cinque prigioni solo per aver attraversato la frontiera. L’ultimo carcere era a Mykolaiv, nel Donbass, dove ci siamo ritrovati un mese dopo nel bel mezzo della guerra, sotto il fuoco incrociato degli scontri. La prigione in cui stavamo era situata accanto a un aeroporto militare che è stato bombardato migliaia di volte. Ci svegliavamo sotto i raid, con il solo pensiero di correre il più veloce possibile verso i tunnel… In qualche occasione non potevamo nemmeno mangiare, non ne avevamo il tempo”.

Luis Alberto ha 28 anni, segue con la coda dell’occhio il labiale di Antonio lì al suo fianco e si fa largo tra le voci dei suoi compagni: “Quando è esploso il conflitto, gli ucraini hanno cominciato a liberare i detenuti dalle prigioni, e allora, attraverso le ambasciate dei Paesi di origine, tutti sono stati portati via verso la Polonia o altri Stati che accoglievano rifugiati. Anche noi abbiamo contattato l’Ambasciata cubana, pur essendo oppositori siamo cittadini cubani e dovremmo comunque avere gli stessi diritti dei nostri connazionali. Invece no. L’Ambasciata cubana a Kiev era a conoscenza del fatto che fossimo dissidenti politici noti, in quanto avevamo già fatto a Cuba dichiarazioni pubbliche contro il comunismo. Il nostro Paese non ha mai voluto cedere o negoziare con l’immigrazione ucraina, e ha deciso di lasciarci lì rischiando di farci morire sotto le bombe. Siamo rimasti cinque mesi in quella prigione, fino al 25 giugno 2022, mentre i notiziari di Cuba continuavano a mentire, dicendo che noi stavamo bene, che avevamo tutto ed eravamo in buone condizioni. Ma come è possibile che in mezzo alla guerra una persona possa stare bene? La stai vivendo la guerra, nessuno te la sta raccontando. Vedevamo gli aerei passare, come venivano bombardati i paesini di notte, le truppe russe che ci passavano vicino, i tank, gli elicotteri. Le guardie del nostro carcere ci dicevano che se i russi avessero preso la nostra prigione ci saremmo dovuti sdraiare sul pavimento senza opporre resistenza, perché altrimenti ci avrebbero uccisi. Tutto questo mentre il regime cubano diceva che noi stavamo bene e non ci mancava nulla. L’Ambasciata cubana si è comportata molto male con noi: ci ha minacciato dicendoci che saremmo rimasti in Ucraina se avessimo continuato a raccontare ai giornali quello che ci stava accadendo. Poi per fortuna siamo riusciti a contattare un’avvocatessa italiana presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Daria Sartori, che ha preso a cuore il nostro caso ed è stata l’unica ad aiutarci. L’unica che è riuscita a fare pressioni internazionali per il nostro rilascio con la garanzia che saremmo stati portati in Polonia”.

Yosiel, avete assistito a scene di tortura in Ucraina?
“Sì, ci hanno torturato! È molto importante che il mondo lo sappia, non ci hanno trattato bene a Mykolayiv… ci hanno minacciato, ci costringevano a pulire i corridoi, ci mettevano nelle celle di punizione solo perché chiedevamo di essere liberati, dato che cadevano bombe sulle nostre teste. Abbiamo visto come picchiavano un altro straniero… Noi chiedevamo di essere scarcerati perché avevamo paura della guerra e loro prima ci hanno ingannato dicendoci che lo avrebbero fatto, ma poi ci hanno fatto picchiare con le spranghe dalla Polizia antisommossa; in quel momento siamo rimasti fermi contro il muro, i poliziotti continuavano a picchiare gli altri che cercavano di reagire, a un uomo hanno rotto le costole e il braccio. Ci hanno torturato psicologicamente e fisicamente. Nessuno di noi sta realmente bene. Siamo davvero distrutti, siamo stati in una guerra e abbiamo visto cos’era, lo abbiamo visto con i nostri occhi. Siamo usciti da una dittatura, scappati dal conflitto che c’è a Cuba tra il regime e chi si oppone e ci siamo ritrovati in un altro inferno senza volerlo, e questa volta con armi pesanti, e a tutto ciò non eravamo abituati.

Quando siete riusciti a lasciare il Donbass dove siete finiti?
“Due giorni dopo aver lasciato il centro migranti di Mykolayiv quel luogo è stato raso al suolo dai raid… Nel momento in cui siamo stati portati al confine, le autorità ucraine hanno contattato ancora una volta l’Ambasciata cubana che ha detto di non portarci in Polonia, ma in Moldavia, perché quest’ultima non essendo parte dell’Unione europea ci avrebbe poi rispediti a Cuba. Qui ci hanno chiesto 400 dollari con la scusa che ci avrebbero trasferiti in Romania, ma in realtà questi soldi servivano a pagare la nostra condanna, ovvero il biglietto di ritorno a casa. Noi non avevamo questa somma e siamo riusciti comunque a entrare in terra rumena con l’intenzione di chiedere asilo politico. Qui ci hanno messo in un centro migranti aperto e ci hanno sottoposto a una prima intervista, dopo un mese ce ne hanno fatta una seconda. A distanza di sole 24 ore è stata rigettata la nostra domanda, intimandoci di lasciare la Romania entro 14 giorni, altrimenti saremmo finiti in un centro migranti chiuso per altri sei mesi, il che avrebbe significato rivivere quanto accaduto in Ucraina. Tornare in Moldavia non sarebbe stato giusto, poiché l’ambasciata di Chișinău è come quella di Kiev, chi ci perseguitava in Ucraina ci avrebbe perseguitati anche in Moldavia, non sarebbe cambiato nulla; il rischio era sempre essere rimandati a Cuba dove avremmo rischiato il carcere e la stessa vita. Una volta ricevuto il diniego da parte della Romania, abbiamo cercato di scappare per arrivare in Italia, perché sapevamo che qui c’è uno dei gruppi più grandi di opposizione al regime cubano dopo quello spagnolo, Stato che sarebbe stato troppo lontano da raggiungere. Quando si è fatto buio siamo entrati in Ungheria e abbiamo preso un treno diretto a Linz in Austria. Siamo riusciti ad arrivare alla frontiera italiana, scendendo prima della fermata di San Candido, in Trentino Alto Adige. Questa è stata la notte decisiva per la nostra salvezza, abbiamo percorso la montagna in salita e in discesa con la paura che la Polizia ci stesse aspettando al confine. Una volta arrivati abbiamo contattato i gruppi italiani di oppositori cubani dicendo di essere a San Candido, uno di loro si trovava dalle nostre parti e ci ha portato a Bolzano”.

Com’è la vostra situazione in Italia e qual è attualmente il vostro status legale?
“Ci sta aiutando l’associazione di opposizione al regime cubano in Italia, con l’avvocatessa Sartori, la stessa che ha seguito il nostro caso quando eravamo in Ucraina. Grazie a loro, a un’altra avvocatessa di Bolzano e alla Caritas, verremo presentati prossimamente in Questura, in modo tale che possa cominciare l’iter legale. Per ora ci è stato dato un foglio con cui possiamo girare tranquillamente nella provincia, in cui è dimostrato che siamo richiedenti asilo politico seguiti dalla Caritas. Ci stiamo riprendendo da tutto quello che abbiamo attraversato nel nostro viaggio verso l’Unione europea, da tutti i maltrattamenti che abbiamo subito in Ucraina, da quei cammini a piedi attraverso le montagne per raggiungere i vari Stati. Speriamo che l’Italia ascolti le nostre testimonianze e che ci accolga come cittadini, è quello che vogliamo. Non siamo persone cattive, siamo persone perbene che la pensano in modo differente al regime di Cuba. Vogliamo essere liberi, dire quello che pensiamo, senza il timore di essere uccisi o imprigionati per questo. Desideriamo inserirci nella società come un italiano in più. Essere un italiano in più”.

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