giovedì, 25 Aprile 2024

Calcio, fischietti in via di estinzione: la violenza mette fuorigioco gli arbitri

In Italia sempre più ragazzi abbandonano l'arbitraggio, a spaventare è la violenza in ogni sua forma. Le parole di Rizzoli e le idee di Trentalange devono essere salvifiche per una situazione che gradualmente sta sfuggendo di mano.

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“Che gusto c’è a fare l’arbitro” è un libro di Nicola Rizzoli, arbitro italiano classe 1971, fischietto della finale dei mondiali in Brasile del 2014 tra Argentina e Germania. Il primo capitolo si apre con l’esordio arbitrale di Rizzoli in una gara di esordienti nel 1987, ma il debutto è tutt’altro che positivo, tanto che il mister della squadra sconfitta a fine partita gli dirà: “Arbitro, sei una vergogna! Ma chi ti ha mandato? Sei uno scandalo, ma io ti faccio smettere sùbito, guarda tu non puoi arbitrare. Conosco gente all’AIA, meglio che ti fermino sùbito, prima che qualcuno ti prenda a schiaffi davvero”. (Che gusto c’è a fare l’arbitro, Rizzoli 2015).

A pensare dove sia arrivato Rizzoli viene quasi da ridere riesaminando le affermazioni lette in precedenza, ma, citando Luigi Pirandello, si tratta di “un riso che si fa amaro”. Che si tratti del miglior arbitro al mondo o di un ragazzino alla prima partita, il risultato non cambia: l’opinione media di un qualsiasi addetto ai lavori sarà questa. La figura del direttore di gara in rampa di lancio è quanto di più vicino alla solitudine, perché fino alla Prima Categoria (Quarto livello dilettantistico) non c’è l’ausilio degli assistenti arbitrali. Il che significa che si entra allo stadio da soli, ci si approccia alle due squadre da soli, si esce a fine partita dall’impianto da soli. È una sorta di legge animale che costringe a cacciare o essere cacciato. In qualsiasi momento può esserci un episodio che richiede una decisione da prendere in pochissimi istanti, in cui ci sei soltanto tu a stabilire cosa succede.

Questo identikit mentale, somigliante più a Sylvester Stallone in Rambo che ad un professionista che si approccia ad una gara, è più comune di quanto non si immagini. Stando ad alcuni dati, a fronte di oltre 33mila arbitri nel 2016, ad oggi se ne contano 29mila, un drastico calo di 4mila unità. È innegabile che il Covid abbia accelerato una selezione, che già di suo avveniva costantemente ogni domenica, come una goccia che man mano scava la roccia. Prendendo in considerazione l’annata sportiva 2018/2019, l’ultima pre-pandemia, emerge dall’Osservatorio Violenza AIA 2019 che ci sono stati 457 episodi di violenza sull’arbitro, di cui 200 di tipo fisica e 119 di tipo fisica grave. Più di un terzo, 171, si sono materializzati in Terza Categoria (89) e Seconda Categoria (81), ossia i due ranghi più bassi del calcio dilettantistico. A rendersi protagonisti sono nella maggior parte dei casi i calciatori, non per aver gonfiato una rete, ma un arbitro per ben 303 volte. Seguono i dirigenti, immischiati 98 volte in accadimenti legati a soprusi, e addirittura personaggi estranei alle squadre in campo (genitori e/o altre presone presenti allo stadio) nei restanti 56 incidenti.

Il Presidente dell’Associazione Italiana Arbitri Alfredo Trentalange, durante l’assemblea dei presidenti di sezione svolta a Coverciano nell’ottobre scorso, si è espresso per una maggiore tutela dei direttori di gara: “Questa della violenza rimarrà sempre una nostra priorità. Proporremo un inasprimento delle pene ed avanzeremo sempre ricorsi contro le sentenze che non ci appariranno adeguate, agendo a livello legale, amministrativo e magari anche legislativo. Bisogna poi lavorare a livello culturale, spiegando cosa ci sia dietro ai ragazzi che scendono in campo e cosa significhi essere un arbitro”.

La carenza di fischietti ha creato un effetto domino non indifferente, tanto da interrompere campionati in Regioni come Lazio, Emilia Romagna, Abruzzo, Piemonte e Lombardia. Gli organi competenti sono dovuti ricorrere ad una decisione drastica, quella di designare arbitri della massima serie per dirigere partite di categorie inferiori. L’avvento di Trentalange alla presidenza dell’Aia ha fatto sì che venisse proposto un progetto nuovo e decisamente innovativo, il doppio tesseramento. Un ragazzo dai 14 ai 17 anni può essere sia arbitro che calciatore: “Quando un giovane calciatore entra nello spogliatoio e racconta l’esperienza differente che sta facendo, avvicina i compagni al ragazzo che la domenica successiva dirigerà la loro partita. E poi può spiegare il regolamento perché, parliamoci chiaro, quasi nessuno lo ha mai letto”.

È indubbio che la situazione sia letteralmente sfuggita di mano nel corso degli anni, figlia della noncuranza e della bistrattazione della figura arbitrale. Quasi sempre ci si dimentica che un arbitro è un ragazzo comune che nella vita di tutti i giorni studia, lavora, ha una famiglia, degli affetti, hobby e aspirazioni come chiunque altro, e non è quindi una figura appartenente a chissà quale sfera celeste. La riflessione finale è offerta ancora una volta da Nicola Rizzoli, che con lucidità e classe guarda da una prospettiva più ampia la situazione: “Quasi tutti quelli che parlano di calcio hanno giocato a calcio almeno una volta nella vita. Quasi tutti quelli che parlano di arbitri non hanno mai arbitrato una partita nella loro vita”.

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