giovedì, 25 Aprile 2024

Usa2024, le “verità” di Trump: The Donald sempre più sopra le righe

Donald Trump, figura potente e controversa d'America, continua a far parlare di sé. L'ultima trovata è il lancio del suo social, chiamato non a caso Truth. Obiettivo un "nuovo assalto" a Capitol Hill.

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Trump non si arrende, non accetta di abbandonare i riflettori mediatici. Anzi, “The Donald” torna a far parlare di sé e a stupire “con effetti speciali”, o almeno così spera. E annuncia l’arrivo, si presume il prossimo mese, della nuova piattaforma social che si chiamerà ‘Truth’ – Veritàdi proprietà della Trump Media and Tecnolgy Group (Tmtg).

L’ex Presidente degli Stati Uniti, bandito sia da Twitter che da Facebook per i suoi contestatissimi post, vuole far sentire di nuovo la sua voce: “Viviamo in un mondo dove i talebani hanno una enorme presenza su Twitter, mentre ancora il vostro presidente preferito viene silenziato. Questo è inaccettabile!”. Che sia semplicemente una nuova megalomane idea di Trump o già l’inizio di un’auto-candidatura alle elezioni del 2024?

Certo è che Trump parla di sé agli americani definendosi ancora “il vostro presidente preferito”. Segno che in quel sondaggio Ipsos del 25 maggio scorso, ci crede fortemente e ne va fiero. Cinque mesi fa, infatti, il 53% degli americani lo riteneva il “vero presidente” degli USA. Ma questo lo immaginava già, dice: “l’ha sempre saputo che l’America è intelligente”. Il problema è quel non trascurabile restante 47% – quello che ha contribuito a metterlo in secondo piano sulla scena politica.

Eppure Trump, secondo, non si è mai sentito. Tant’è che ha cercato di dimostrarlo quando, in Arizona, ha voluto e preteso il riconteggio dei voti, convinto di ribaltare il risultato elettorale in quello Stato. È stato un vero e proprio flop per l’ex Presidente: la vittoria, all’epoca delle elezioni, dell’attuale Presidente degli Stati Uniti Joe Biden è stata confermata. Anzi – come si suol dire – oltre al danno, la beffa. Secondo il rapporto presentato al Senato dell’Arizona, nella Maricopa County, con capitale Phoenix, Biden ha avuto 99 voti in più rispetto a quelli conteggiati; mentre Trump 261 in meno. Ed ecco che “The Donald” torna a casa con un “pugno di mosche” in mano, insieme alla sua teoria del voto rubato. Nessuno ha giocato sporco, semplicemente gli americani, dopo tanti anni, hanno deciso di cambiare per sé stessi e per la propria Nazione.

Il suo personaggio, narciso e spaccone, riesce ogni giorno a ritagliarsi uno spazio di visibilità sui media. Come quando, qualche giorno fa, si è appellato all’executive privilege, la facoltà di non rivelare informazioni, facendo causa ai National Archives e alla Commissione Parlamentare che indaga sull’assalto a Capitol Hill  per bloccare la divulgazione dei documenti richiesti. Joe Biden, però, non ha nessuna intenzione di fermare il trasferimento di documenti.

Quante chiacchiere per negare la sconfitta
All’indomani della sconfitta, in occasione del suo primo comizio, in Ohio, l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump continuava a ribadire che le elezioni 2020 siano state “una grande truffa”. Sono state migliaia le persone che hanno partecipato al MAGA, sostenendo Trump, il tycoon. Ancora una volta, dall’alto della sua immensa umiltà – si fa per dire – ha definito il vincitore una “disgrazia per l’America; una completa disgrazia”. E ha affermato che il nuovo “inquilino” della Casa Bianca manderà in rovina il Paese. Intanto, lui, sottraendosi ai rituali del passaggio di testimone fra presidenti, manda in rovina una centenaria storia di rispetto fra vincitori e vinti  che si sono succeduti alla Casa Bianca.

“Io non voglio distruggere la democrazia, sto cercando di salvare la democrazia americana”. I democratici sono gente disonesta, parlano di lavoratori ma per loro non fanno nulla. Arriva così la strategia di “The Donald”, quella prevedibile: con un Congresso repubblicano, il prossimo anno, si batteranno per i lavoratori, per la politica dell’America First, porranno fine all’immigrazione illegale, faranno tornare il diritto alla libera espressione, fronteggeranno la Cina. E poi, come sviolinata finale per “toccare” il cuore della gente, i bambini: “insegneremo ai nostri piccoli a rispettare e amare il Paese”. “Non ci arrenderemo mai, il nostro movimento non è finito: la nostra battaglia è appena iniziata. Renderemo l’America potente, ricca, forte, sicura”. “Presto ci riprendiamo l’America” – ha concluso Trump. “Make America Great Again”. Lo slogan delle campagne di Trump è sempre quello, sempre attuale. Rendere l’America di nuovo grande. E chi non lo pensa non è un “trumpista”. Di più: è un nemico. Creare nemici è rischioso, ma è pur sempre una strategia.

Fuori dalle biografie, chi è Donald Trump?
Trump è il burattinaio americano che, tra una vittoria e l’altra, si è preso gioco delle imprese? È un “figlio di papà” in cerca solo di fama e teatro? Oppure è il gigante dell’economia degli Usa? Forse è un po’ tutti e tre, il “Fu Mattia Pascal” d’America che riesce a rinascere sempre dalle sue ceneri. Un binomio perfetto di egocentrismo ed autocelebrazione, un mix di spavalderia, fallimenti e successi reali. È il classico esempio del “purché se ne parli”. Ovvio, è l’uomo più ricercato dalla stampa. Uno stratega che, “affilando”, giorno dopo giorno, le sue strategie di marketing, ha toccato i vertici del potere, economico e politico. Il segreto è adattarsi, apparentemente, alle regole base della comunicazione. “Gioco con le fantasie delle persone”, scrisse nel suo libro del 1989 “Trump: l’Arte di fare affari”, una vita fatta di esagerazioni, di “iperbole reale”, come la chiama lui. Si è cimentato in ogni tipo di settore, in maniera a volte megalomane: dalle imprese immobiliari alle bistecche, dai casinò alle reginette di bellezza.

Non è tutto oro ciò che luccica
Qualsiasi cosa “tocchi”… prende il suo cognome. Sono 269 su 515 le aziende di cui Trump fa parte personalmente. Aziende che, anche in caratteri cubitali e dorati, prendono il nome di TRUMP. E a quelle che non sono di sua proprietà ha concesso una licenza per usare il suo nome. Un’altra strategia, quella del marchio e del franchising. Non solo hotel ed edifici, ma anche un gioco da tavolo, le bistecche – servite nei suoi ristoranti, una linea di cravatte e camicie Donald J. Trump Signature Collection, un’acqua naturale, bevande energetiche israeliane, acqua di colonia, vino della Virginia, vodka e mobili.

La Trump Organization è proprietaria di hotel, palazzi e campi da golf in tutto il Mondo. Le sue imprese immobiliari, però, non hanno lo strapotere che Trump vuole far credere. Sarà sicuramente un magnate del settore, a New York, ma in realtà non rientra nella lista dei primi dieci imprenditori immobiliari della città. I casinò, il football, le campagne aeree, invece, sono finite male. I fallimenti – usati dai suoi avversari come attacco durante elezioni, eventi e comizi – sono sempre stati definiti da Trump “buoni affari”. Anche questa una strategia, arrivata con un tempismo perfetto: è riuscito, proprio così, ad uscire dal settore di crisi di Atlantic City.

La Commissione elettorale federale d’America ha rivelato che sono 15 le aziende, associate a Trump, ad avere un debito totale di 270 milioni di dollari con le banche. Anche in questa occasione, con spavalderia, Trump fa sapere che lui non si appoggia a Wall Street, perché non ha bisogno di denaro. È così ricco da potersi autofinanziare. Il motivo dei suoi fallimenti, secondo il Donald, è la stanchezza dell’avere così tanto. Una volta acquistate le proprietà, queste lo stufano. Per lui la cosa importante è la ricerca, non la proprietà. Un ragionamento alquanto contorto, quasi impossibile da comprendere: prova a spiegarlo a chi vorrebbe comprare una casa e non può o a chi, dopo anni e anni di sacrifici, è costretto a chiudere la propria attività. A loro basterebbe la proprietà, non la ricerca.

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