giovedì, 25 Aprile 2024

Il dramma della famiglia Bellocchio in “Marx può aspettare”

"Marx può aspettare", ma il fardello della sua famiglia no. Così il regista Bellocchio la porta al confessionale.

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Il canto del cigno di Bellocchio, il confessionale della sua famiglia, l’abbraccio mai dato al fratello fragile, l’auto-analisi della famiglia Bellocchio al capezzale del compianto Camillo, fratello del regista.

Il travagliato canovaccio dell’ultima fatica del Nostro prende le mosse dal dolore. La morte del padre per cancro e il suicidio del fratello muovono la riflessione dello sceneggiatore. Questi si pone alcune domande: perché se papà stava bene non tornava a casa? Cos’avrei potuto fare per evitare il gesto di Camillo? E però i Bellocchio tutti hanno una coscienza con la quale misurarsi; nessuno si assolve per la morte del loro fratello. Perché Camillo scriveva quelle lettere? Cosa voleva chiedere, in punta di piedi, un uomo che si sente “fallito”? Sì: “Ho fallito anche in amore”, scriveva prima di togliersi la vita.

Cioran nel ’68 aveva già dato alle stampe La tentazione di esistere e proprio nel ’68, dopo le feste di Natale, Camillo decide di andare via da questo mondo. Cioran, dicevamo, sembra parlare di Camillo in quel libro: di “quella categoria di individui che si incontrano nelle capitali, che vivono di espedienti, sempre alla ricerca di una sistemazione che appena trovata rifiutano. Ho tratto più insegnamenti dai loro discorsi che dal resto dei miei incontri. Quasi tutti custodivano in sé un libro, il libro dei loro rovesci; tentati dal dèmone della letteratura, gli resistevano tuttavia, a tal punto che le loro sconfitte li soggiogavano, a tal punto riempivano le loro vite. Sono i cosiddetti «falliti» costituiscono un tipo particolare di uomo, che tenterò di descrivervi a rischio di semplificarlo. Bramoso di insuccessi, cerca in ogni cosa il proprio indebolimento, non va mai oltre i preliminari del proprio avvenire, né varca la soglia di alcuna impresa. Quanto ad abulia, rivaleggia con gli angeli, medita sul segreto dell’atto e non prende che una sola iniziativa: quella dell’abbandono. […] Delle sue convinzioni fa la sua dimora, come il verme col frutto; cade con esse, e si risolleva solo per aizzare contro di sé le tristezze che gli restano. Se soffoca le proprie doti è perché, con tutte le sue forze, ama la lassitudine; avanza verso il suo passato, indietreggia in nome dei suoi talenti“.

È “La tentazione di esistere” il capolavoro di Cioran, edito da Adelphi, a mancare nelle biblioteche dei Bellocchio riprese dal regista. Oppure appare in spectalum: non letto dalla parentela di Camillo. Nessuno si è accorto del fratello infelice, e nemmeno la compagna, rimasta vedova. E il ricercato lessico degli attori/parenti consta vacuo al cospetto non già del pentimento per la morte del fratello, ma addirittura a fianco del sapere popolare: Camillo de Lellis è il santo patrono dei malati; e proprio in quel nome si cela e accompagna il fato del più prestante dei fratelli Bellocchio; ma del più vulnerabile, se non malato.

L’artista prova a immaginarsi il fratello per le strade di Bobbio, la loro cittadina, con la tuta da istruttore di palestra; gli mette in bocca la frase che dà il titolo a questo documentario in “Gli occhi, la bocca”, il suo lungometraggio dell’82. E pertanto possiamo desumere che portava questo fardello su di sé già da anni, ma non se n’era curato. Perché Marx può aspettare, implorava Camillo, al cospetto del fratello impegnato nel cinema engagé. Marx però non ha aspettato, e Bellocchio ci ha messi a parte del suo peccato: il peccato del disinteresse verso un “fallito”. E a nulla vale il sacerdote che in Chiesa lo “confessa” in favore di telecamera. Camillo non c’è più e la sua famiglia se n’è accorta troppo tardi. Resta, invece, un’opera commovente originata dalla “ferita da sanare”, per citare le parole finali del curato. Così come tutto il cinema sana le ferite dell’esistenza.

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