mercoledì, 9 Ottobre 2024

“Io, eterno studente”: buon compleanno Francesco Guccini

Montanaro di nascita, scrittore per passione, cantautore quasi per “caso”. “Eterno studente” per convinzione.

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Quell’ “eskimo innocente” non lo indossa più, ma rimangono “l’umore nero, le accuse di arrivismo, i dubbi di qualunquismo”. Rimangono gli incontri, le notti insonni, le strade percorse, gli amici. Le canzoni, i libri e le autobiografie. Rimane il suo modo di comunicare, la sua autoironia, il sarcasmo e quella discografia fatta di “pane, vino e sudore”. Quel “se avessi previsto tutto questo”, l’invettiva irriverente di chi si è sempre considerato l’ultimo dei grandi cantautori italiani.

81 candeline dopo, Francesco Guccini rimane probabilmente uno dei personaggi meno accomodanti che si conoscano, ma anche uno degli ultimi testimoni di un tempo ormai in estinzione. Lo si potrebbe definire una sorta di eroe romantico, un “burattinaio di parole” che, invece di piegarsi sotto il peso dei nuovi tempi, ha pensato bene di uscire di scena con maestria ed eleganza, mantenendo fino alla fine quell’onestà e quella coerenza che l’hanno sempre contraddistinto.

Montanaro di nascita, scrittore per passione, cantautore quasi per “caso”. “Eterno studente” per convinzione. Nell’immaginario comune Francesco Guccini è l’omone schivo dalla barba folta, dei concerti con il vino in mano, della sigaretta in bocca e della sottile irriverenza tra una canzone e l’altra che lo hanno portato ad abbattere le distanze col pubblico e le presunte barriere “generazionali”.

Indubbiamente e ironicamente di atteggiamento socratico (“e soprattutto perché so di non sapere”), della maieutica ne ha fatto quasi uno stile di vita (“non siamo scoperta né sponda sfiorita/non siamo né un giorno né vita). Dell’esercizio del dubbio una vocazione (“Non andare… vai. Non restare… stai”) e della demistificazione e del nichilismo nietzschiano una vera e propria moda (“nei miti dell’estate, dio è morto”).

81 anni son tanti, specie se sommati a quelli raccontati nei versi delle proprie canzoni, quelli della “gente che si frantuma in un fiato”, o della “figlia e madre nel viso uguali e nel culo tondo”. Guccini ha cantato di vite ordinarie, della gioventù frivola dei vent’anni portati addosso “come si porta un maglione sformato su un paio di jeans”, di uomini destinati “da sempre ad un lavoro più forte”, madri “lontane e presenti” e dell’amore da “film vecchio della Fox”. Ha raccontato storie di ognuno di noi, immagini di volti che si riflettono negli specchi, dell’amarezza e della paura di diventare grandi, in una corsa incessante contro un tempo bastardo che corre troppo veloce e che lascia i segni sulla pelle senza dare modo di capirne “il senso, chissà”.

Se è vero che le canzoni appartengono a chi le ascolta e non a chi le scrive e che ad ognuno spetta quella legittima licenza poetica di darne una lettura del tutto personalistica, è necessario anche ammettere che Guccini, attraverso la sua discografia, si sia raccontato più di quanto non abbia mai voluto confessare. Per uno che ha sempre vissuto la propria vita senza troppe aspettative né pretese, costruendo le giornate a frugare “dentro alle nostre miserie”, i suoi brani risultano essere spesso autobiografici e tracciano in modo abbastanza lineare il ritratto di un uomo che nasce quasi come un “ghost-writer” per l’Equipe ’84 e i Nomadi ed esce di scena salpando via come una nave in ritirata, quell’Ultima Thule che nel 2012, quasi dieci anni fa, lasciava un po’ tutti con l’amaro in bocca.

In 45 anni di carriera musicale abbiamo conosciuto il Guccini folk, timido e immaturo e il Guccini sessantottino, sospettosamente anarchico e “rivoluzionario”. Abbiamo visto il Guccini irrazionale, fantasioso e hippie degli anni ’70, chiaramente influenzato dalla recente esperienza americana e dall’innovativo fingerpicking di stampo dylaniano. Abbiamo conosciuto un Guccini nostalgico e più maturo a cavallo del nuovo millennio, il politico, lo sdegnato e arrabbiato contro Bertoncelli, quello innamorato dell’amore.

Fino al Guccini stanco dei concerti, delle case discografiche, della musica. Il callo da suonatore ormai perso, la chitarra che diventava un po’ troppo pesante, Francesco Guccini un giorno ha deciso così di posare “penna e foglio” nello studio lì, a Pavana.

Raccontare di un’artista è raccontare anche un po’ di sé stessi e provare a rendere omaggio a chi, con le parole ci ha tessuto la propria esistenza, è una grande responsabilità: potrebbe apparire un azzardo, a tratti presuntuoso. Ma se è vero che le canzoni scalfiscono l’anima e segnano le nostre vite, allora è giusto mettersi a nudo e provare a restituire, almeno in parte, ciò che quell’artista ci ha donato.

Quando ho conosciuto Francesco Guccini, estremamente giovane e fin troppo ingenua, non avevo idea di “viso avesse, neppure come si chiamava/ con che voce parlasse, con quale voce poi cantava”. Non conoscevo l’importanza della musica, delle parole; la potenza di quei “quattro accordi cuciti in croce”, né avevo idea di quanto un’artista potesse influenzare la propria vita.

Ma con le sue canzoni, Francesco Guccini ha influenzato diverse generazioni e ha insegnato che d’arte si può vivere, che con le parole si può rendere il mondo un po’ meno imbruttito e abbrutito. Che il tempo è una condizione umana, diventare grandi ha un “prezzo salato” e lottare per le proprie idee necessita di “paura e coraggio”.

Che gli eroi esistono. E no, non sempre “son giovani e belli”. E forse, è meglio così.

Buon compleanno allora a chi, pur non ammettendolo, ha segnato e unito coi propri versi cinquant’anni di generazioni differenti.