giovedì, 18 Aprile 2024

“Il cattivo poeta”: silenzio in sala

Gabriele d'Annunzio, Villa Cargnacco, ultima dimora del Vate, ci presenta un uomo solo col "suo" federale.

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Il dramma di due uomini ne Il cattivo poeta del regista Gianluca Jodice: il Vate d’Annunzio impersonato da Sergio Castellitto, e il federale Comini interpretato da Francesco Patanè. È un dramma, poiché non c’è nulla di eroico nei due personaggi; anzi, c’è il dolore, il rammarico di un uomo ormai âgé e del bel federale che cerca di compenetrarsi nell’anima del poeta. Non c’è la fedeltà all’ideologia a scapito dell’umanità. Comini si presenta quale buon volto della giovinezza, accanto al vegliardo ormai rivolto al passato, con la volontà di rappresentare quest’ultimo in un’opera letteraria.

Gabriele d’Annunzio – in realtà Rapagnetta: d’Annunzio è il cognome di un suo prozio materno – nel 1936, quando comincia il lungometraggio, si trova ormai a due anni dalla morte (1938). Vive appartato a Gardone Riviera e lì il Duce comincia a spiarlo, a braccarlo. Mussolini manda sul lago di Garda, al Vittoriale degli Italiani, il federale Giovanni Comini a seguire gli ultimi anni del poeta, nel complesso eretto dal 1921 per volontà dell’artista. Si nota, così, già il dissenso tra il Nostro e il regime. Nulla riuscirà ad appianare i rapporti tra d’Annunzio ed il fascismo. Pertanto l’anfiteatro all’aperto, tanto desiderato dallo scrittore, resterà in cantiere: il Duce non acconsentirà alla richiesta del Vate. Solo nel 1958, infatti, fu completato il Parlaggio: questo il nome scelto da d’Annunzio per l’anfiteatro.

Nel frattempo l’aria comincia a farsi pesante: nel 1937 iniziano i rastrellamenti e Comini vedrà perdere alcuni suoi affetti. Al Vittoriale le condizioni di salute di d’Annunzio peggiorano: affetto da allucinazioni, scorge topi che non esistono e la cocaina diventa troppa. Ma il ’37 si rivela cruciale, in quanto il Nostro si rende effettivamente conto che non avrà più rapporti con Mussolini. L’alleanza con Hitler porta il “cattivo poeta” a prorompere in un pianto sul petto di un soldato fascista, alla stazione ferroviaria di Verona – dove avverrà l’ultimo incontro tra d’Annunzio e Mussolini.

Comini cerca di riportare i pensieri sulla perplessità del Vate riguardo all’alleanza tra Italia e Germania ad Achille Starace, il segretario del Partito Nazionale Fascista che l’aveva incaricato di sorvegliare d’Annunzio. Tutto vano. Nessun lieto fine nella Storia, gli appelli del Vate non verranno accolti dal regime. L’artista morirà con l’intenzione di ultimare un libro, ma rimarrà incompiuto.

Nel 1940, due anni dopo la scomparsa di d’Annunzio, l’Italia entrerà in guerra. Le calme acque del Garda, ammirate dal poeta col giovane federale, s’intorpidiranno fino al ’43 – quando le camicie nere abbandoneranno le armi.

Il rapporto di Comini con d’Annunzio, la solitudine del vecchio e del nuovo uomo di potere, il dramma ed il tormento del federale dal volto e dall’animo candido, paiono il vero prodotto della sceneggiatura. Il confronto tra i due si basa su complicità e fratellanza. Il Vate sembra il padre che Comini, distante da casa, non riabbraccia da tempo o il nipote sempre attento ad ogni parola del nonno. I grugni e le camicie nere trasmettono l’impressione di fare a botte con l’essenza del federale. Quel federale, che alla fine del film – una volta in più – indicherà la via dei sentimenti.

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