giovedì, 28 Marzo 2024

Strage di Capaci, Daniela Marcone (Libera): “Parenti delle vittime muoiono ogni giorno” – VIDEO

Figlia di Francesco Marcone, vittima innocente di mafia, Daniela Marcone ha dedicato la sua intera vita alla lotta contro le mafie, la corruzione, i fenomeni di criminalità e chi li alimenta, diventando vicepresidente di Libera, la rete di associazioni, nomi e numeri contro le mafie

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Una bomba da 500 chili di tritolo scoppiava il 23 maggio di 29 anni fa a Capaci. Da quel quel giorno, la lotta alla mafia ha fatto molta strada, così come la mafia stessa; ma per chi sopravvive, per tutti i parenti delle vittime innocenti di mafia, le esplosioni, i colpi d’arma da fuoco, l’assenza di verità, ammazzano ogni giorno.

“Le pallottole che hanno ucciso mio padre, continuano a colpire ancora oggi me e mio fratello, oltre che mia madre, morta nel 2010, senza essersi mai ripresa da quel lutto”. Lo dice ferita nel profondo la dottoressa Daniela Marcone, figlia di Francesco, vittima innocente di mafia, medaglia d’onore al merito civile, ucciso il 31 marzo del 1995. Direttore dell’Ufficio del Registro di Foggia, Francesco Marcone venne ucciso con due colpi di revolver nell’atrio del palazzo in cui abitava, pochi giorni dopo aver inoltrato un esposto per denunciare un gruppo di criminali alla Procura della Repubblica.

Daniela Marcone ha dedicato la vita alla lotta contro le mafie, la corruzione, i fenomeni di criminalità e chi li alimenta. Don Ciotti, fondatore di Libera, la rete di associazioni, nomi e numeri contro le mafie, ha teso la mano alla famiglia Marcone, Daniela ne è poi diventata vicepresidente, impegnandosi per la giustizia sociale, per la ricerca di verità, per la tutela dei diritti, per mantenere vivo il ricordo e la memoria delle vittime innocenti delle mafie. Che poi è esattamente il credo di Libera: combattere per uomini, donne e bambini che hanno perso la vita per mano della violenza mafiosa, per difendere la libertà, la democrazia. Una memoria condivisa e responsabile grazie alla testimonianza dei familiari che si impegnano affinché gli ideali, i sogni dei loro cari rimangano vivi.

Vivi, come il dolore provocato dal fatto che ancora oggi, a distanza di 26 anni, non si conosce la verità sulla morte di Francesco Marcone, ormai un cold case. Solo a definirlo così sembra una contraddizione in termini: una storia senza verità è calda anche a distanza di anni, esattamente come freddo è diventato il corpo di chi per combattere le mafie ha perso la vita. “Io conosco pezzi di verità. So chi ha fornito l’arma per uccidere mio padre. Peccato che questa persona sia morta in uno strano incidente e le indagini siano state archiviate. Questo pezzo di verità scava dentro di me e mi chiedo: cosa non ha funzionato? Il caso Marcone non è accaduto in mezzo al mare, ma in una comunità che in quegli anni neanche riconosceva la Mafia in quanto tale, la chiamava mala”. Una comunità, in questo caso foggiana, che non aveva neanche capito l’identità del mostro che aveva di fronte.

C’era e c’è di fronte a noi un’evoluzione non solo lessicale, ma anche di modus operandi delle mafie. Una evoluzione di fronte alla quale lo Stato non sempre riesce a stare al passo. Un’evoluzione anche in termini di importanza man mano acquisita dai vari clan. Senza contare che ci sono mafie e mafie. “C’è quella che passa più in sordina, come quella foggiana per esempio, quella a cui invece viene data una grande eco mediatica, come Cosa Nostra, che nell’immaginario collettivo corrisponde alla mafia che ha ucciso Falcone e Borsellino”. Dal 23 maggio, dalla strage di Capaci in cui ha trovato la morte il giudice Falcone, sua moglie e la sua scorta, sono passati quasi 30 anni. Cosa è cambiato da allora?

“Trent’anni in cui questi personaggi sono diventati leggenda, e non se lo meritano”, o almeno non meritano di essere solo questo. “La mafia, lo sappiamo, è infiltrata ovunque. Alcune caratteristiche delle mafie si sono inglobate nella nostra cultura, senza farci avvertire più che quella è una subcultura. La normalizzazione delle mafie ha determinato la crescita di fenomeni vandalici, di inciviltà diffusa, di emulazione di certi comportamenti. Falcone non poteva immaginare tutto, ma il suo pensiero era e resta di forte lungimiranza e sempre straordinariamente attuale. Anche la normativa ancora in vigore prende il messaggio di Falcone, anche se oggi le mafie sono cambiate, a quelle normative bisogna aggiungere altro senza stravolgerle e quello che non funziona va adattato in una rimodulazione continua”.

Bisogna adeguarsi ai tempi che cambiano, alle generazioni che si susseguono, che devono essere nuove promotrici di legalità e non nuove leve malavitose. Una delle armi più forti che possediamo per contrastare la mafia erano e restano i giovani, da cui deve arrivare uno spiraglio di luce: “È interessante vedere come i giovani si stiano sempre più appassionando all’argomento. La scuola, la formazione in generale, è un’arma importante, ma bisogna trasmettere ai giovani nel modo giusto, senza linguaggi obsoleti, facendogli conoscere ancora prima della strage di Capaci, la storia di Rosario Livatino o di quello che succede adesso; bisogna far percepire ai ragazzi cosa fanno oggi le mafie. Perché parlare ai ragazzi ‘solo’ di Capaci, senza fargli arrivare l’idea di avere un po’ di speranza, fa in modo che dall’incontro ne escano disperati, amareggiati, impotenti, indifferenti perché incapaci di fare. Invece informarsi e sapere cosa accade, farli sentire non cittadini del futuro ma cittadini dell’oggi, può contribuire a rendere fattivi i loro comportamenti”.

Liberarsi dalla costrizione del fenomeno mafioso si può. E si deve. Non solo per e con i ragazzi, ma anche per e con le donne. ”Donne che per prime hanno scavato con le loro riflessioni sui linguaggi, sulla lettura sociologica nella fenomenologia mafiosa”. Donne dall’altra parte della barricata, “che hanno sposato un mafioso e poi hanno cercato di denunciare, di ribellarsi, di scappare. Sono state uccise per il solo fatto di pensare di entrare in contrasto con il codice mafioso, che di norma sono loro a trasmettere poi alla Famiglia. Incoraggiare e sostenere le donne ad uscire, insieme ai propri figli, dalla vita da clan mafioso è una strada importante da percorrere, per non generare un’altra classe di futuri mafiosi.” Dunque, continua: ”Colpiamo le mafie al patrimonio economico, ma colpiamole anche nel patrimonio umano, i figli. È anche questo il modo per scardinare definitivamente le mafie”.

Un’altra tra le infinite strade da percorrere per tagliare le gambe alla mafia è “individuare e contrastare quella zona grigia di gente non identificata che supporta la mafia”. In generale, “la sottovalutazione delle mafie, definite a volte come primitive in alcuni territori, le ha portate a diventare forti e a infiltrarsi in mondi che neanche potevamo immaginare. Investimenti in armi, affari esteri, narcotraffico. Ora è sempre più complesso contrastarle, non c’è niente di misterioso in questo, tranne quella zona grigia di anonimi sostenitori, zona a cui la magistratura sempre più si sta dedicando. Bisogna essere estremamente fiduciosi”.

Quello che Daniela Marcone sta facendo e con lei tutti gli onesti cittadini che non possono accettare di poter vivere in una dimensione sociale di illegalità “normalizzata”, consiste in questo: aver scardinato con il suo appassionato impegno, quell’aura di invincibilità associata alla mafiositá. Poter vedere i processi contro i capi clan e verificare la loro punibilità con le condanne in tribunale. Poter sentire che categorie sociali, quali le donne e i giovani possono costituire il fecondo nutrimento per avversare l’atteggiamento mafioso nei gesti della vita quotidiana. Poter sentire collettivamente quel fresco profumo di libertà, se si agisce nell’ottica del Bene comune. Poter fare memoria della strage di Capaci, per sentirci “capaci” di germinare un cambiamento sociale, in cui il diritto di essere cittadino deve attingere dalla libertà e dalla democrazia, costituzionalmente garantite da uno Stato in “trattativa” solo con gli onesti.

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