giovedì, 25 Aprile 2024

Italia, 22 maggio 1978: l’aborto è Legge. Sulla carta

A 43 anni dalla legge sull'interruzione volontaria di gravidanza, i suoi nemici non smettono di combatterla.

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Il personale è politico! L’utero è mio e me lo gestisco io!

È innegabile: se oggi possiamo godere di diritti quali il divorzio, l’abrogazione del delitto d’onore e l’interruzione volontaria di gravidanza, dobbiamo ringraziare le femministe della seconda ondata, quelle donne che, nel corso degli anni sessanta e settanta, hanno lottato con le unghie e con i denti per la creazione di una vera società civile.

Nell’Italia delle nostre nonne e madri, l’aborto era considerato un reato dal Codice Penale che puniva con la reclusione da due a cinque anni sia la paziente, sia l’esecutore dell’interruzione di gravidanza. Bisogna aspettare il 22 maggio del 1978 per una legge che rispetti il diritto di autodeterminazione delle donne. La legge 194, Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, da 43 anni consente alle donne di ricorrere alla IVG in strutture pubbliche deputate. Una norma tanto voluta e difesa anche nel 1981, quando il 68% della popolazione votò contro l’abrogazione agognata da Democrazia Cristiana, Movimento Sociale Italiano e Giovanni Paolo II.

Sembra una partita vinta, chiusa, il cui risultato non potrà mai essere compromesso da un controllo al VAR. Invece no.

Siamo sicuri che vada tutto bene?

La scorsa primavera, per tutelare la salute delle donne e, al tempo stesso, decongestionare gli ospedali già soffocati dalla prima ondata di coronavirus, il Ministero della Salute si è espresso a favore dell’impiego maggiormente estensivo dell’IVG con metodo farmacologico fino a nove settimane, contro le 7 precedenti, presso “strutture ambulatoriali pubbliche adeguatamente attrezzate, funzionalmente collegate all’ospedale ed autorizzate dalla Regione, nonché consultori, oppure day hospital“. In questo modo si sarebbe superato il limite dell’ospedalizzazione durante la fase di somministrazione della RU486, introducendo l’erogazione a domicilio delle prostaglandine, il farmaco che causa le contrazioni.

La Giunta di centrodestra della Regione Umbria, guidata dalla leghista Donatella Tesei, a giungo 2020, con una delibera, decide di ripristinare l’obbligo di ricovero per tre giorni per le donne che vogliono sottoporsi all’interruzione farmacologica di gravidanza; un provvedimento che avrebbe esposto le pazienti al rischio di contagio e che, proprio facendo leva su questo timore, le avrebbe dissuase dal ricorrere alla pratica.

Così, il 12 agosto il Ministero della Salute è corso ai ripari diffondendo una circolare sull’aggiornamento delle linee di indirizzo sull’IVG farmacologica, con il beneplacito del Consiglio Superiore di Sanità e dell’Agenzia italiana del farmaco, confermando quanto già sostenuto in primavera.

Siamo sicuri che vada tutto bene? 

Dal 2001 la Sanità è una competenza che spetta alle Regioni, e non tutte si sono adeguate alle indicazioni ministeriali. L’Umbria ha finto un passo indietro: da una parte ha mantenuto la possibilità di abortire con il ricovero in ospedale, dall’altra ha proposto una legge regionale che favorirebbe l’ingresso nei consultori pubblici dei movimenti Pro-vita.

Alla crociata umbra si sono unite Piemonte, Abruzzo e Marche che, lentamente, stanno aprendo le porte degli ambulatori alle associazioni antiabortiste, in una società in cui l’interruzione volontaria di gravidanza è ancora bollata come una vergogna.

Siamo sicuri che vada tutto bene? 

Secondo l’ultimo report del Ministero della Salute sull’attuazione della legge 194, aggiornato al 2018, il 69% dei ginecologi e circa la metà degli anestesisti e del personale non medico in Italia è obiettore di coscienza. I record più tristi sono detenuti dalla provincia autonoma di Bolzano (87,2%), da Lazio (74,5%), Molise (92,3%) e Sicilia (82,7%). Su 558 strutture con reparto di ostetricia e/o ginecologia, solo 362 effettuano IVG. A questi numeri si aggiunge quello dei farmacisti che, illegalmente, si rifiutano di vendere gli strumenti per la contraccezione di emergenza.

Per quale motivo così tanti medici si rifiutano di aiutare le donne? Nel 2015 l’antropologa Silvia De Zordo ha svolto una ricerca qualitativa nei reparti di ginecologia-ostetricia di quattro ospedali pubblici, due a Milano e due a Roma. Può suonare assurdo, ma la maggioranza degli obiettori non considera l’aborto un crimine o un peccato, secondo una religiosità individuale, bensì un problema sociale e di salute pubblica. Dallo studio si apprende che per alcuni camici svolgere IVG non è gratificante dal punto di vista monetario.

Non solo: in alcuni casi i motivi stanno nella formazione dei medici. Prima delle modifiche recentemente apportate, nella Carta delle finalità del Campus Biomedico di Roma si leggeva: “Il personale docente e non docente, gli studenti e i frequentatori dell’Università […] considerano l’aborto procurato e la cosiddetta eutanasia come crimini in base alla legge naturale […]. Si ritiene inoltre inaccettabile l’uso della diagnostica prenatale con fini di interruzione della gravidanza ed ogni pratica, ricerca o sperimentazione che implichi la produzione, manipolazione o distruzione di embrioni“.

Il progetto Obiezione respinta si occupa da anni di fornire assistenza alle donne che vogliono ricorrere all’IVG fornendo, tra le altre cose, una mappa interattiva delle farmacie e delle strutture in cui è possibile richiedere la RU486. Ad esempio, si sconsiglia di recarsi presso una certa farmacia barese poiché “il proprietario è il primo firmatario di un progetto di legge per l’inserimento dell’obiezione di coscienza per i farmacisti e membro dell’Unione Cattolica dei Farmacisti Italiani”.

Siamo sicuri che vada tutto bene? 

Dallo scorso dicembre in quasi tutte le città italiane sono comparsi manifesti con lo slogan: “Prenderesti mai del veleno? Stop alla pillola abortiva RU-486, mette a rischio la salute e la vita della donna e uccide il figlio nel grembo“. Si tratta di una campagna contro dell’associazione Pro Vita & Famiglia, onlus vicinissima a Forza Nuova, come denuncia un’inchiesta di Ferruccio Pinotti e di Elena Tebano per il Corriere della Sera.

La palermitana Maghweb ha risosto con Non è un veleno una contro-campagna a tre livelli: comunicativa, informativa e legale. “Vogliamo che le donne, gli uomini e tutte le persone che abitano le nostre città non si imbattano più in ostacoli disinformativi, privi di fondamenti scientifici. Vogliamo preparare il terreno per far sì che quando si parli di aborto,
a prevalere non siano i dogmi, ma la corretta informazione scientifica“.

Siamo sicuri che vada tutto bene? 

Il Comitato della carta sociale europea, organo del Consiglio d’Europa, ha riscontrato lo scorso anno quanto sia difficile abortire in Italia nonostante lo preveda una precisa norma. Secondo il collegio, il nostro Paese non ha fornito informazioni sulla percentuale di domande di IVG non soddisfatte a causa del numero crescente di obiettori di coscienza negli ospedali e nelle farmacie. Inoltre, è stato chiesto al Ministero di fornire i dati sugli aborti clandestini.

Esattamente. Aborti clandestini. Secondo i dati della ultima relazione parlamentare 2019 del Ministero della Salute, tra le 10 e le 13mila donne ricorrono ogni anno a metodi illegali. Tra le cause non c’è solo il rifiuto da parte delle autorità competenti di aiutare le pazienti, moltissime donne sono vittime di una cultura che vede nell’IVG un’incancellabile vergogna.

Sono tantissime le testimonianze di ragazze che, durante una visita preliminare, si sono sentite dire “Dovevi pensarci prima“. Una violenza verbale inaudita nei confronti di chi avrebbe solo voluto conforto, visto che ancora nel 2021 abortire è un tabù, una “scelta difficile”; spesso non perché non sia semplice decidere se tenere un figlio o no, ma perché si teme il giudizio degli altri. Quando si parla di IVG, la si associa ancora a trauma, senso di colpa, rimorso, dolore. È necessario invertire la rotta.

Per questo motivo è nato IVG, ho abortito e sto benissimo, il progetto curato dalla psicologa Federica di Martino e dalla ginecologa Elisabetta Canitano. Si legge nel blog: “Oggi più che mai non si parla di aborto, se non in termini negativi, che instillano il senso di colpa tale da relegare questa esperienza a un tabù a cui non è più possibile accedere. Noi crediamo che la nostra vita si componga di storie e di racconti che, uniti in questo tentativo di raccolta testimoniale condivisa, possano inscrivere una nuova narrazione che ci veda come donne protagoniste nuovamente dei nostri corpi e dei nostri diritti”.

Siamo sicuri che vada tutto bene? 

Sono passati pochi giorni dalla festa della mamma. Eppure, fra tutti gli aforismi e i messaggi di amore ed elogio, non è stata detta una cosa fondamentale. L’Italia non ama tutte le madri, così come non ama le donne.

Lo testimoniano anni di “Se l’assumo, questa resta incinta, si mette in maternità e non la vediamo più“. A quante di noi viene chiesto – illegalmente, secondo l’art. 27 del Codice delle pari opportunità – durante un colloquio di lavoro se abbiamo intenzione di sposarci e/o diventare madri? Molte donne, dopo aver raggiunto l’autonomia economica, pur di non vedersi demansionate (il licenziamento dovrebbe essere vietato dalla legge 1204 del 1971), preferiscono rinunciare alla maternità e abortire. Ma chi sceglie di non diventare genitrice viene considerata egoista, il cui unico valore è quello del lavoro e del denaro.

Il ricorso all’IVG, per quanto sia un diritto fondamentale per l’autodeterminazione delle donne, è però il punto di fuga di un altro grande quadro problematico. Quello della mancanza di un’adeguata educazione sessuale e affettiva. L’unica soluzione per limitare la pratica dell’interruzione di gravidanza non è appoggiare le associazioni antiabortive e le loro intromissioni non richieste nella vita altrui, tantomeno renderla illegale. Bisogna educare di più e, soprattutto, introdurre meglio e maggiormente all’uso della contraccezione.

Siamo sicuri che vada tutto bene? 

La battaglia delle destre e della Chiesa contro la legge 194 non è finita negli anni ’80. Ancora oggi, dietro la maschera della “tutela della salute delle donne” si nasconde quel turpe desiderio di ammanettarci. Eppure, come la rana di Chomsky, non tutte ci rendiamo conto dello stato delle cose.

Come scrive l’attivista Irene Facheris in Parità in pillole (Rizzoli 2020), “sembra tutto normale quando ci sei dentro. Ogni abominio è più accettabile mentre lo vivi, perché per proteggerti hai bisogno di dirti che non è nulla di grave; perché, se ti accorgi che qualcosa non va, poi devi fare i conti con il fatto che non stai facendo niente per migliorarla“. Ed è per questo, per non fare la fine della rana bollita, che dobbiamo sempre chiederci “Siamo sicuri che vada tutto bene?“. Perché non possiamo permetterci di procrastinare. Non possiamo permetterci di cadere nella trappola di pensare che ci siano davvero cose più importanti della tutela dei nostri diritti.

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