È ancora necessario un report per renderci conto di quanti alti siano i casi di violenza sulle donne. E delle forme, spesso ancora troppo poco riconosciute.
Perché non è necessario aspettare il 25 novembre di ogni anno, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, per parlarne. Soprattutto se la tendenza dei casi non accenna a crescere. Anzi, la situazione di reclusione, isolamento e abbandono che ha caratterizzato l’ultimo anno delle nostre vite, ha portato ad un boom di casi.
Nel 2020, infatti, le chiamate al 1522, il numero di pubblica utilità contro la violenza e lo stalking, sono aumentate dell’80% rispetto al 2019, sia per telefono, sia via chat (+71%). E secondo l’Istat, il 31,5% delle 16-70enni (6 milioni 788mila) ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica, sessuale o psicologica. Questi però, sono solo i casi realmente denunciati tramite le chiamate al 1522.
La pandemia ha costretto vittime e carnefici nella stessa casa. Ha reso le donne in trappola, in una convivenza forzata, senza modo alcuno di scappare, se non solo la possibilità di avere il sostegno, spesso telematico, dei Cav, Centri Anti-violenza. Il boom di chiamate si è avuto a partire da fine marzo, con picchi ad aprile (+176,9% rispetto allo stesso mese del 2019) e a maggio (+182,2% rispetto a maggio 2019).
Ma la risposta alle denunce non è stata organica all’interno del territorio nazionale. La disparità territoriale della rete di supporto e contrasto alla violenza di genere vede una media di donne accolte pari a 73, dato che arriva a 108 nel Nord-est e a circa 95 nel Centro. I Cav delle Isole e del Sud hanno invece accolto rispettivamente una media di 43 e 47 donne. L’incremento delle donne accolte dai Cav nei primi 5 mesi del 2020, rispetto ai primi 5 mesi del 2019, non è importante (+1,1%), ma sul territorio le differenze sono rilevanti: si va da +41,5% di donne accolte nelle Isole, a +21,1% al Sud a +5,4% del Centro e +5,2% del Nord-est fino al calo registrato nel Nord-ovest (-16,4%).
I dati sconcertanti, restituiscono un quadro ancora troppo negativo e fanno intuire come l’emergenza epidemiologica non si sia fermata alle sole vittime da Covid.
Ma essere vittime di violenza fisica, sessuale o psicologica non può ancora essere una questione di soli numeri: è necessario affrontare il problema di petto, non relegando a sole tabelle e grafici un problema culturale che fonda le sue radici su retaggi culturali sbagliati, obsoleti e meschini e sessisti.
Allora non basta solo pubblicare report, leggere dei freddi numeri stampati nero su bianco. È necessario trovare una risposta netta e strutturale, a partire da azioni di sensibilizzazione sul diritto a denunciare soprusi e violenze, ad azioni mirate volte a scardinare preconcetti e forma-mentis che vedono nella violenza un mezzo di comunicazione legittimo e potenziando realtà e reti di supporto per tutte quelle donne che purtroppo ancora oggi cercano aiuto.