I ricercatori dell’università di Yale, in America, e quelli dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, hanno fatto una sensazionale scoperta: per la prima volta, in tutto il mondo, è stato dimostrato come il coronavirus danneggi il fegato. Un lavoro intenso, pubblicato sul ‘Journal of Hepatology‘ in cui viene descritto il processo patologico all’origine del danno epatico associato, però, a forme molto gravi e a volte anche mortali di Covid-19. Esso è “un’alterazione della vascolarizzazione dovuta all’eccessiva produzione dell’interleuchina IL-6, una citochina che regola la risposta immunitaria dell’organismo”.
Le analisi sono state condotte nei laboratori dell’università di Yale su animali, sui quali hanno riprodotto, per la prima volta, tutto il processo arrivando alla conclusione che l’IL-6 può essere una cura possibile per il Covid e che il meccanismo d’azione descritto dai ricercatori del Papa Giovanni XXIII – con l’analisi di dati e radiografie di 42 pazienti morti a Bergamo durante la prima ondata – è valido. Le autopsie sono state effettuate da Andrea Gianatti, direttore del Dipartimento di Medicina di laboratorio e da Aurelio Sonzogni, anatomopatologo. I risultati sono stati analizzati e valutati da Maria Grazia Alessio, Giulia Previtali e Michela Seghezzi della Medicina di laboratorio, analisi chimico cliniche dell’ateneo Papa Giovanni. Il direttore Sandro Sironi, docente all’università di Milano-Bicocca alla post Graduate School in Radiologia diagnostica, insieme ai radiologi Clarissa Valle e Pietro Bonaffini, sono tra gli autori che hanno collaborato allo studio.
Secondo gli esperti “Si tratta al momento del primo studio mai pubblicato su modello animale che coinvolge il più grande campione numerico di tessuti umani provenienti da pazienti deceduti per infezione da Covid-19. Il virus Sars-Cov-2 induce le cellule dell’endotelio dei vasi sanguigni che irrorano il fegato a produrre una proteina chiamata interleuchina IL-6 che, in situazioni normali, ha una funzione di regolazione dei processi immunitari. Quando però la sua produzione è sregolata ed eccessiva, l’IL-6 può portare a stati infiammatori anomali. Nel caso di Covid-19, questa cosiddetta ‘tempesta citochinica’ porta allo stato infiammatorio (endoteliopatia) e alla coagulazione del sangue all’interno dei vasi epatici”.
Sonzogni dell’Anatomia patologica dell’Asst Papa Giovanni XXIII spiega che “i marcatori dell’attivazione delle cellule endoteliali e delle piastrine (fattore VIII, gli enzimi fibrinolitici, D-dimero, l’antigene del fattore di von Willebrand-Vwf) hanno indicato un legame tra danno epatico, coagulopatia ed endoteliopatia. La citochina IL-6, attraverso un processo detto di ‘trans-segnalazione’, provoca l’aumento di anticoagulanti (fattore VIII, Vwf) e infiammatori. Si genera anche un aumento delle piastrine nelle cellule dell’endotelio. Abbiamo rilevato l’azione inibitoria da parte dell’inibitore naturale gp130, del farmaco ruxolitinib che era stato somministrato in alcuni di questi pazienti, e di particolari anticorpi (Stat1/3 siRna). Abbiamo trasmesso questa successione di dati e questo modello ai colleghi di Yale, che lo hanno sottoposto a verifica in laboratorio, ottenendo una conferma di quanto abbiamo ipotizzato”
Il ruolo dell’infiammazione delle cellule endoteliali era già stato preso in considerazione in studi precedenti in cui si valutava il rapporto tra danno epatico e Sars-CoV-2 che, su 2.273 pazienti, il 45% aveva un danno epatico lieve, il 21% moderato e il 6,4% grave. I pazienti con danno epatico acuto erano a maggior rischio di ricovero in terapia intensiva (69%), intubazione (65%), terapia renale sostitutiva (33%) e mortalità (42%); mentre di tutto quello che riguarda il collegamento tra fegato e virus non se ne era mai parlato, o meglio non era mai stato dimostrato su tessuto.
Questa ricerca dal binomio “Italia-Usa” pone l’attenzione sul ruolo dell’endoteliopatia come causa primaria del danno epatico rispetto alla coagulopatia, proprio perché causa di quest’ultima. Identificare prima l’endoteliopatia e mettere in atto subito le ‘strategie terapeutiche’ per non far velocizzare l’infiammazione potrebbe essere uno dei trattamenti possibili di Covid-19 grave.
“Dal Papa Giovanni arriva ancora una volta un contributo allo sforzo collettivo della comunità scientifica internazionale per conoscere e quindi combattere in maniera efficace questa malattia – commenta Fabio Pezzoli, direttore sanitario dell’Asst Papa Giovanni XXIII – Ringrazio i nostri professionisti per il rigore scientifico e la serietà con cui stanno affrontando la sfida rappresentata da questo nuovo virus”.